Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha dichiarato che il Pnrr ha come principali beneficiari le donne, i giovani e il Mezzogiorno e dovrebbe contribuire a ridurre i divari territoriali esistenti nel nostro Paese.

Il Piano destina 82 miliardi al Mezzogiorno, una quota del 40% del totale, e segna il ritorno in grande stile della Programmazione economica a sessant’anni dalla Nota La Malfa e dei successivi numerosi Documenti di Programmazione della politica economica, tentativi sostanzialmente non riusciti. Senza entrare nel merito delle progettualità ora previste, il vero interrogativo riguarda le possibilità degli interventi di attivare uno sviluppo economico-territoriale autonomo, autopropulsivo e durevole. 



Spesso le politiche per il Sud hanno risolto alcuni problemi, ma ne hanno anche creato di nuovi. Sia pur con sfumature di giudizio talora significative, gli osservatori delle dinamiche di sviluppo dei territori e dell’economia italiana paiono concordi nel sottolineare varie problematiche di inefficacia dell’azione pubblica di sostegno alle economie regionali meridionali. Alla disponibilità di spesa non si è accompagnata una corrispondente produzione interna, ma solamente una maggiore dipendenza dalla spesa pubblica.



L’Istituto Bruno Leoni in una nota di qualche settimana fa ha ribadito come le nuove risorse non possono essere la risposta al problema della crescita dell’Italia e ha rilevato come vi sia il pericolo che i soldi disponibili finiscano per alimentare altra spesa improduttiva. L’IBL ha aggiunto: “Se ben impiegate, le risorse europee possono promuovere alcune riforme strutturali e favorire la messa a terra di opere potenzialmente utili. Ma non c’è nulla di salvifico in tutto questo: non basterà il Pnrr a cancellare trent’anni di stagnazione”. Riassumendo, il Pnrr da solo non basta perché non può risolvere tutti i mali, ed è stato caricato di valenze che stanno generando aspettative troppo alte. Occorrono altre politiche, più strutturali, che colmino i ritardi e i deficit di crescita che hanno limitato le grandi potenzialità dell’economia delle regioni meridionali. 



Esistono ragionevoli dubbi sul fatto che il Pnrr, sia a livello nazionale, sia locale, possa produrre, in modo automatico, sviluppo e occupazione. C’è il rischio che i diversi attori ripropongano meccanismi politici e istituzionali clientelari, alimentando pressioni e veti incrociati, che riproducano una pluralità di rendite di posizione, più o meno rilevanti (nel controllo e nella gestione dei flussi di risorse, di progetti riciclati, di reclutamento di ulteriore personale nelle amministrazioni, ecc.). Esistono ulteriori rischi di tipo burocratico nell’attuazione dei progetti, anche da parte del centralismo regionale, oltre a forti interrogativi sulla dotazione delle necessarie competenze tecniche a livello locale.

Troppo spesso il problema non è rappresentato dalla quantità di investimenti a disposizione (anche in occasione di vari dibatti sul Pnrr i parlamentari hanno chiesto più soldi), ma dalla capacità di attivare buona spesa pubblica per investimenti e di mettere in moto processi virtuosi, efficienti e innovativi. Finora, il problema non è stato tanto la quantità di denaro disponibile, quanto, in alcuni casi, il non saper spendere (bene) le risorse, scegliendo progetti di investimento con valutazioni appropriate fra diverse alternative disponibili. 

A questo si aggiunge il fatto che per molti anni si è sviluppata la tendenza, da parte della classe politica locale e nazionale, a valutare le politiche di intervento non in termini di efficacia rispetto a dotazioni, bisogni o problemi emergenti, ma in termini di “produttività del consenso elettorale”. Speriamo che queste stagioni siano concluse. Tuttavia, la spesa pubblica da sola non basta. C’è bisogno di efficienza, di rendicontazione e di valutazioni attente sugli effetti e sui processi messi (o meno) in atto, che dovrebbero segnare una discontinuità con le pratiche dei decenni passati. Il Pnrr è una grande opportunità per cambiare lo status quo.

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