In vista della giornata italiana dell’infanzia e dell’adolescenza, Unicef Italia ha pubblicato un rapporto sulla condizione degli adolescenti. Bastino tre dati: un ragazzo su sette soffre di problemi legati alla salute mentale, ogni undici minuti un ragazzo di questo mondo si toglie la vita, il suicidio è la quinta causa di morte dei giovani (la seconda in Europa).
Per non restare alla superficie del comprensibile choc suscitato da queste statistiche, vorrei leggerle alla luce di un episodio occorso qualche giorno fa in un liceo scientifico di Milano.
L’insegnante di religione mette a tema cosa c’entri il cristianesimo con le domande ultime della vita, come per esempio con quelle presumibilmente sorte in seguito alla recente tragica morte di Luca, coetaneo e concittadino dei presenti, morto travolto da un tram, in una mattina come tante altre, mentre andava a scuola con la sua bici, come capita di fare anche a loro. Immediata la reazione di uno dei più svegli della classe: «Scusi, io faccio religione, invece lei parla di domande, cita la notizia del tram … non vedo il nesso… per favore, ci parli di cristianesimo». Questa risposta è per me quanto mai emblematica di un fastidio, di una situazione, di una missione che ci possono aiutare a comprendere nel suo contesto il rapporto dell’Unicef.
Il fastidio è quello dei ragazzi che sentono messo a tema il loro disagio o la fatica del vivere, solo quando si oltrepassa il limite e, spesso, non si può fare altro che commentare ed elaborare il trauma. Deve per forza accadere la tragedia, perché si torni a parlare del senso della vita e della fatica a trovarlo questo senso?
Proviamo ad immedesimarci: come ci sentiremmo, se la nostra condizione venisse messa a tema solo quando ci sono i problemi e scatta lo stato d’emergenza? La risposta la si potrebbe trovare in un brano di Bleachers e Taylor Swift, Anti-hero: «A volte mi sembra che tutti siano dei bebè sexy/E io sono un mostro sulla collina/… Sono io, ciao, sono io il problema, sono io».
Ecco il fastidio: si è sempre trattati come problemi da risolvere, disordini da mettere a posto. La concezione della ragione come misura, che ci fa identificare la felicità con il controllo ansioso della situazione, rivela tutta la sua inconsistenza quando le persone a cui vogliamo più bene rifiutano di farsi trattare come problemi da risolvere.
Non è perciò l’allarmismo la via più adeguata a leggere i dati offerti dall’Unicef. Anzi, si potrebbe quasi dire che proprio questo allarmismo dettato dalla paura – riprendendo un motto che spesso ho sentito sulle labbra di don Julián Carrón – fa più parte del problema che della soluzione.
La situazione testimoniata dalla risposta schietta e sferzante del ragazzo milanese è, piuttosto, quella di una frammentazione della vita, per cui si chiama in causa un esperto per ogni ambito: il professore per il rendimento scolastico, l’allenatore per la dimensione fisica, gli amici per lo svago e il tempo libero, lo psicologo per i traumi e così continuando… ed è doveroso che il prof di religione ci parli solo di religione! Ma c’è qualcuno che si possa prendere cura della totalità dell’umanità, delle sue aspirazioni infinite e di quelle improvvise e sconfortanti scivolate? Questa frammentazione non si sistema crescendo, e i più sensibili tra i più giovani già lo avvertono di sottecchi. Il rischio è che col passare del tempo non ci sia solo l’esperto di ogni cosa, ma soprattutto le regole per ogni ambito, un profilo in cui accedere in ogni situazione (lavoro, famiglia, tempo libero, sport…), e così anche la verità di sé dove va a finire, chi la conosce tutta intera?
La risposta la si potrebbe trovare in un commuovente brano di Demi Lovato, Anyone: «Sono stanca di conversazioni vuote/ Perché nessuno mi ascolta più/… Mi sento stupida quando canto/ Nessuno mi sta ascoltando/… Per favore, mandami qualcuno/ Signore, c’è qualcuno?». Lo sappiamo bene, occorre qualcuno che profondamente ascolti, che abbracci la totalità dell’io, nella sua verità. Occorre qualcuno davanti al quale non dovremmo avere paura di dirci in crisi, perché sappiamo che non vedremo l’agitazione dipingersi sul suo volto nel momento in cui glielo diremo. Una buona volta, lo possiamo ammettere: l’esigenza di ascolto e di verità è ciò che ci accomuna tutti, giovani adulti. Ed è forse a partire da questa esigenza che abbatte le distanze generazionali che dovremmo leggere i dati forniti dall’Unicef.
La missione a cui ciascuno di noi è chiamato – adulti o grandi, in questo senso non fa differenza – è perciò a riconoscere come ogni ambito di vita (dalla salute mentale a quella fisica), ogni sentimento (dall’esaltazione allo sconforto), ogni circostanza (dalla fatica di crescere alla morte improvvisa) c’entrano con la verità del nostro io e con chi può comprenderla.
Lorenzo Cherubini, in un modo certamente originale, stilando a conclusione del JBP2 un Legacy Report, ha deciso di mettere in ultima pagina la foto di una ragazza con un cartello con su scritto: «Sono felice e me ne sto rendendo conto». La forza sta tutta nella seconda parte della frase, perché un conto è sentirsi momentaneamente felici e un altro conto è scoprire grazie a quell’esperienza qualcosa di sé: «non siamo fatti per la tristezza» – dice ancora Jovanotti. La soluzione del problema incomincia ad arrivare quando un uomo, piccolo o grande che sia, impara qualcosa della verità di sé da ciò che vive, di qualunque cosa si tratti. È questa la missione a cui tutti siamo chiamati: poter scoprire nuovamente, nel bel mezzo della crisi, chi ci fa crescere, cosa e chi si rivela una presenza in grado di abbracciarci per tutto quello che siamo, fino a farci scoppiare l’entusiasmo per il cammino della vita.
«Perché mai la Chiesa non riesce più a fare oggi […] ciò che le riuscì splendidamente duemila anni fa?» – si chiedeva qualche giorno fa Antonio Polito su Sette. Quando la Chiesa si mette a fare solo “la religione”, diventa un diffusore di informazioni settoriali, tendenzialmente morali e per lo più abbastanza noiose, ma soprattutto che non fanno crescere la vita, al massimo cercano con scarsi risultati di metterla a posto. La forza educativa della Chiesa, invece, si mostra da duemila anni nel generare uomini che non si allarmano suscitando fastidio negli interlocutori, abbracciano la totalità dell’io che ascoltano, ma soprattutto che sanno indicare chi li ha rigenerati e li genera in ogni crisi.
Lo testimonia una studentessa che scrive alla fine del percorso di studi alla sua professoressa: «A volte vorrei sparire. Dormire per sempre, ma il pensiero di persone come lei mi rasserena e forse restare svegli non è così male». Come ha riconosciuto un mese fa Papa Francesco, è stata questa la forza del metodo educativo di don Giussani, «servitore di tutte le inquietudini e le situazioni umane che andava incontrando», proprio perché era totalmente fondato in quell’esperienza che non lo ha mai abbandonato dal giorno in cui ne ha fatto la scoperta: «lo stupore e il fascino di questo primo incontro con Cristo».
Ancora oggi, grazie a Dio, il metodo non cambia per stare davanti a provocazioni come quella del rapporto Unicef: occorrono uomini che sappiano proporre niente di meno di chi li genera nelle viscere della propria umanità.
Per questo quel ragazzo un domani ringrazierà di avere un professore di religione che piuttosto che “fare il suo” ha l’audacia di sfidare proprio quelle scomode domande che pochi hanno il coraggio di guardare in faccia. La domanda di quel professore è il più grande contributo per rispondere positivamente all’allarme lanciato dall’Unicef.
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