Per approfondire il triste argomento dei suicidi causati da disagio mentale tra gli appartenenti alle Forze Armate/Polizia, per capire meglio le cause del problema e indagare le prospettive di soluzione abbiamo contattato un esperto che da anni si occupa della problematica dei suicidi tra militari e poliziotti, Cleto Iafrate, fondatore dell’Osservatorio dei suicidi in divisa. Cleto Iafrate ha acconsentito a concederci una intervista focalizzata al problema ed ha risposto di buon grado alle nostre domande.
Cosa l’ha spinta ad indagare sull’argomento?
Mi ha spinto un dubbio. Per entrare nei corpi armati dello Stato gli aspiranti debbono superare duri test psicoattitudinali. Come mai allora il suicidio in divisa sta diventando un fenomeno di dimensioni allarmanti? Forse il disagio nasce nelle condizioni di vita e di servizio all’interno dei rispettivi corpi armati?
Che risposte ha ottenuto rispetto alle sue domande?
Viene sostenuto che i suicidi siano addebitabili a problemi personali e familiari (una separazione, una malattia incurabile, un lutto improvviso) oltre che a forti fattori di stress connessi al servizio, nel corso del quale si è spesso a contatto con la sofferenza e la morte. L’arma in dotazione completerebbe il quadro di una situazione che può essere già esplosiva in sé.
E lei ritiene esauriente questa spiegazione?
Indubbiamente questi fattori incidono fortemente sulla piaga dei suicidi. Ritengo tuttavia che da soli non bastino a perimetrare il fenomeno. Anche il personale ospedaliero, per esempio, viene a contatto quotidianamente con sangue, sofferenza e morte. Anche medici e paramedici sono sottoposti a forti stress, pensiamo al periodo pandemico in corso o ad altri simili. Anche il personale sanitario ha a disposizione farmaci, armi proprie ed improprie da utilizzare allo scopo. Eppure in ambiente sanitario il suicidio non è diffuso oltre la media nazionale.
Questo cosa le fa pensare?
Mi induce a pensare che il fenomeno debba essere indagato molto a fondo per individuare e valutare ulteriori elementi poco noti da considerare come moltiplicatori di stress e di rischio suicidio. Non a caso, quando si parla di suicidio, si parla di evento multifattoriale complesso. I fattori patologici sono riconducibili, a mio avviso, ad alcune gravi e anacronistiche storture presenti nel mondo militare e delle forze di polizia. Tali storture sono l’effetto di una malintesa e mal declinata specificità militare.
In che cosa consisterebbe tale specificità militare?
Mi spiego meglio. In tempo di guerra si conferiscono agli apparati militari dei poteri speciali che derogano a quelli statuali. Ma in tempo di pace e di democrazia tali poteri dovrebbero rientrare negli argini costituzionali, perché potrebbero aprire la porta a comportamenti discriminatori nei confronti dei sottoposti. In questi casi, i poteri speciali potrebbero trasformarsi in strumenti di pressione, di mortificazione del personale o quantomeno di “selezione ideologica”.
Può farci qualche esempio?
Avremmo fiumi di inchiostro da versare, troppi argomenti per questa sede. Potremmo anche parlare di trasferimenti, considerati come ordini militari e non semplici procedimenti amministrativi. La cui gestione denota arbitrarietà e scarsa trasparenza. Ma per non dilungarci troppo, ci concentreremo sul sistema sanzionatorio disciplinare e sulle valutazioni caratteristiche dei militari. Le note caratteristiche sono un giudizio, personale e professionale, di solito annuale, che ogni comandante compila per i suoi collaboratori. Ebbene, la discrezionalità del compilatore è praticamente assoluta, ed incide direttamente sulla progressione di carriera. Paradossalmente un laureato può essere valutato con cultura “nella media” e condannato a non partecipare per anni a concorsi che richiedono una qualifica superiore. Mentre colleghi con semplice diploma avanzano di grado, perché valutati in modo più benevolo. Neanche il titolo legale di studio può essere opposto al diritto del comandante. Il rapporto fiduciario col superiore diretto azzera il valore anche di un curriculum universitario.
E per quanto riguarda il sistema sanzionatorio? Cosa ci può dire?
Basta solo dire che l’azione disciplinare non è obbligatoria. Se due militari commettono la stessa mancanza, uno può essere legittimamente sanzionato e l’altro perdonato. Anzi, in ambito militare il comandante può legittimamente ricondurre in ambito disciplinare anche una serie di reati previsti dal codice penale militare di pace (cpmp). Possiamo quindi dire che nel sistema sanzionatorio militare il comandante ha la facoltà di esprimere la sua volontà sanzionatoria quando, come e contro chi vuole. Si consideri, inoltre, che una sanzione, oltre ad avere effetti negativi sulla carriera, implica un abbassamento delle note caratteristiche. E con un giudizio di “inferiore alla media”, per due anni consecutivi, si rischia di perdere il posto di lavoro. Inoltre, le violazioni che danno luogo ai rilievi non sono affatto tipizzate. Infatti, la norma del Codice dell’ordinamento militare si limita a stabilire che la consegna punisce le violazioni dei doveri militari e le più gravi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio.
Quindi?
Sulla testa del militare pende costantemente una spada di Damocle: la sconfinata discrezionalità dell’amministrazione militare. Concludendo, essendo il servizio ricompreso tutto nella sfera militare come in tempo di guerra, genera una serie di situazioni che militarizzano tutta la famiglia del dipendente. La “moglie del Maresciallo Rocca” che aspetta seduta sulle valige il marito trattenuto dal servizio non è solo un’immagine cinematografica. Le deroghe continue ed ingiustificate al principio di legalità garantite all’amministrazione militare mettono in luce una serie di contrasti tra il mondo militare e quello civile tra i quali il personale è sospeso diviso e conteso. Contrasti che sono quotidiani e che posso essere molto forti, tali da minare alla base anche la psiche più solida.
(Marco Tedesco)
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