Nell’attuale panorama geopolitico le guerre non accennano a diminuire e la drammatica profezia di Papa Francesco sulla terza guerra mondiale “a pezzi” si va facendo sempre più realtà. Dall’Ucraina ad Israele assistiamo a una distruzione sistematica che minaccia di estendersi anche ai Paesi vicini e ci fa sentire pesantemente immersi in una vera e propria cultura di morte. Senza respiro e senza speranza. In questo clima si innesta l’accanimento mediatico con cui in Italia le diverse Regioni si inseguono in una folle rincorsa per stabilire chi approverà per prima la normativa sull’eutanasia. Sembra che anticipare l’appuntamento con la morte sia diventato il primo e più civile dei diritti, dimenticando gli altri diritti, per lo più a forte caratterizzazione sociale, rimandati sine die. Il Veneto dopo estenuanti lotte per far approvare la legge sul suicidio assistito ha dovuto prendere atto della sua bocciatura. Una bocciatura democratica, ampiamente voluta dalla maggioranza di centrodestra, ma a cui ha contribuito in modo essenziale anche l’opposizione, con l’astensione di Anna Maria Bigon, che ne ha pagato un prezzo altissimo.
Mentre in Lombardia si discute ancora di questa legge, che porta la triste firma di Marco Cappato, e che potrebbe essere bocciata come quella veneta, la regione Emilia-Romagna ha approvato una delibera regionale con le relative linee di indirizzo per regolamentare l’accesso al suicidio assistito, la pratica con cui a determinate condizioni ci si auto-somministra un farmaco letale.
La differenza principale con l’eutanasia sta nella modalità di assunzione del farmaco: nel suicidio assistito il paziente assume autonomamente il farmaco, mentre nell’eutanasia il farmaco viene somministrato da un medico. L’Emilia-Romagna in questo modo diventa la seconda regione italiana a dotarsi di una normativa di tipo amministrativo per poter ricorrere alla morte assistita: lo aveva già fatto la Puglia, sempre con una delibera regionale, ma quella emiliana è la prima regione a stabilire tempi certi entro cui si debbono valutare le richieste. L’Emilia-Romagna prevede un comitato etico territoriale, il COREC, e linee di indirizzo da inviare alle ASL: i due atti stabiliscono che la richiesta di suicidio assistito sia valutata al massimo entro 42 giorni da una commissione medico-specialistica e dal comitato etico. Entro questo termine, chi ne fa richiesta potrà accedere al suicidio assistito o sapere perché la sua richiesta è stata respinta. La Regione Emilia-Romagna in questo modo intende applicare la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale.
Quel che colpisce nella delibera regionale è la precisione burocratica dei tempi fissati, secondo una pianificazione così riassumibile: dal momento della richiesta del paziente entro tre giorni trasmissione alla Commissione di valutazione; entro 20 giorni prime visite e relative valutazioni; entro i successivi 7 giorni il parere etico del COREC ed entro 5 giorni la relazione conclusiva viene consegnata al paziente, che potrà procedere al suicidio entro sette giorni. Una precisione millimetrica che vorremmo fosse applicata ad ogni altra richiesta dei pazienti, cominciando da quelli che invece vogliono vivere e aspettano mesi per ottenere un approfondimento diagnostico o un intervento chirurgico o un piano di assistenza domiciliare, compreso l’accesso alle cure palliative. Sembra proprio che morire sia assai più facile che vivere e Bonaccini si candida ad essere il traghettatore dei desideri di morte dei pazienti, ma non certo dei desideri di chi vuole vivere di più e meglio, contando sulle risorse del SSN. Eppure il primo comma dell’articolo 32 della nostra Costituzione parla di diritto alle cure e non certamente di un ipotetico e inesistente diritto alla morte.
Bisognerebbe chiedere ai milioni di italiani attualmente insoddisfatti del nostro SSN, per le lunghe file di attesa ogni volta che hanno bisogno di una prestazione diagnostica, di una visita specialistica, di un trattamento riabilitativo, cosa pensano di questa radicale inversione tra la tutela del diritto alla salute e la garanzia del diritto a morire quando e come si vuole. In una gerarchia di diritti, di per sé impossibile proprio perché non esiste un diritto a decidere della propria morte, quale posto dovrebbe occupare il diritto alle cure previsto dalla nostra Costituzione, rispetto a un non-diritto alla morte, immaginando le risorse di tempo e di organizzazione, oltre che di farmaci e presidi sanitari necessari per auto-somministrarsi la morte?
Non è vero che oggi la priorità sia morire e le regioni non possono aggirare, come ha fatto l’Emilia-Romagna, ben due livelli di garanzia della nostra democrazia: la mancanza di una legge nazionale, che non c’è perché l’attuale parlamento non la voterebbe, e la mancanza di una legge regionale che i recenti flop rendono altamente improbabile.
Può una delibera amministrativa scavalcare la carenza di una legge che non c’è non per caso, ma perché una maggioranza democraticamente eletta non la vuole? Certamente la delibera dell’Emilia-Romagna ha forti limiti, perché le delibere regionali sono uno strumento molto meno incisivo di una legge, possono essere modificate o ritirate al primo cambio di giunta senza dover passare per una discussione in consiglio regionale. Bonaccini, proponendo per via amministrativa una vera e propria forma di eutanasia, ha evitato di passare attraverso il consiglio regionale, ben sapendo che nel Partito democratico diverse persone sarebbero state contrarie, proprio come è avvenuto in Veneto. Giustamente, quindi, l’opposizione sta cercando di contrastare la delibera sia per i suoi contenuti che per le sue modalità: lo esige il rispetto per i diritti dei malati e la consapevolezza che la democrazia ha i suoi principi e le sue leggi.
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