Il fatto

Gloria, paziente oncologica veneta di 78 anni, è morta il 23 luglio alle 10:25. La sua morte fa notizia perché è la seconda persona in Italia, dopo Federico Carboni, ad aver deciso di porre fine alla propria vita tramite eutanasia, resa possibile dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. Gloria, inoltre, è la prima persona ad aver ottenuto il farmaco e la strumentazione necessaria direttamente dall’ASL, per cui ha potuto autosomministrarsi il farmaco, restando a casa sua. Ad assisterla, ancora una volta, Mario Riccio, che nel 2006 aveva assistito Piergiorgio Welby, ed era il medico di fiducia di Federico Carboni, che un anno fa aveva chiesto e ottenuto l’accesso alla tecnica. Per morire Gloria non ha avuto bisogno di ottenere nessuna autorizzazione da parte di un Tribunale; le è bastata la consulenza della Associazione Coscioni, che ha fatto della legalizzazione e della diffusione dell’eutanasia la sua stessa ragione di esistere e di cui Mario Riccio è consulente fin dagli inizi.



Le norme

Ma proprio le storie parallele di Gloria e di Federico Carboni sembrano dimostrare che attualmente l’eutanasia in Italia si può praticare senza bisogno di una legge ulteriore; basta la legge 219/2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, a cui fa riferimento la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. Sentenza che dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 580 del Codice penale, per cui esclude la punibilità di chi, in presenza di specifiche e determinate condizioni, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio.



La sentenza, inoltre, non si limita a indicare alcune cautele perché la somministrazione di farmaci letali non comporti il rischio di una morte prematura, ma sottolinea la necessità di offrire sempre al paziente concrete possibilità di accedere a cure palliative, diverse dalla sedazione profonda, secondo la legge n. 38 del 2010. La proposta e la somministrazione delle cure palliative devono costituire, infatti, “un pre-requisito della scelta di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente” (Ordinanza n. 207 del 2018).

Peraltro, nel parere del 18 luglio 2019 “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”, il Comitato nazionale per la bioetica ha sottolineato, all’unanimità, che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore, che oggi sconta “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie”, dovrebbe rappresentare, invece, “una priorità assoluta per le politiche della sanità”. Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative.



Né la legge 219, né la sentenza della Corte costituzionale parlano mai di eutanasia. Nel lungo dibattito parlamentare che ha preceduto l’approvazione della legge 219 sulle DAT, i riferimenti espliciti all’eutanasia sono stati esplicitamente negati, salvo re-introdurli in modo apparentemente sofisticato nel corpo della legge, rendendo pressoché assoluta e priva di vincoli la volontà del paziente e considerando nutrizione e idratazione al pari di un qualunque altro farmaco, per cui possono essere rifiutati in qualsiasi momento dal paziente.

In conclusione

Mentre la legge 38/2010 fa delle cure palliative uno dei diritti principali dei pazienti e indica un percorso positivo per alleviare la sua sofferenza fisica e psichica, la legge 219/2018 introduce la possibilità di offrire al paziente una vera e propria forma di eutanasia passiva, che la sentenza della Corte Costituzionale, davanti al rischio che si trasformi in una vera e propria forma di eutanasia attiva con la somministrazione di farmaci letali, tenta di contenere dettando le quattro condizioni. Attualmente però sembra che la legge 38/2010 sia applicata ancora in modo molto disomogeneo e decisamente insufficiente rispetto alle esigenze dei pazienti, mentre il dibattito per aprire alla eutanasia nelle sue diverse forme viene posto in modo sempre più esplicito. In realtà, bisognerebbe capovolgere questo approccio e ripartire dalla legge 38, innescando un vero e proprio iter di prevenzione rispetto al rischio di potenziali richieste di eutanasia. Solo un forte e deciso investimento negli Hospice e nelle varie forme di assistenza domiciliare può restituire con fatti concreti il diritto del malato a soffrire il meno possibile. Ma per questo serve un impegno rinnovato a garantire a tutte le professioni sanitarie, non solo ai medici, una formazione ad hoc.

Se la scuola di specializzazione in cure palliative per i medici è iniziata solo l’anno scorso, non si possono aspettare ancora degli anni per garantire una formazione di alto profilo in cure palliative a tutte quelle professioni sanitarie, infermieri in primo luogo, che si prodigano nella cura dei malati più fragili tra tutti i fragili.

Dalla morte di Gloria vogliamo estrarre questo insegnamento forte e chiaro: più cure palliative per i malati e più formazione in cure palliative per tutto il personale, con lo scopo di prevenire la richiesta eutanasica, intervenendo prima, in modo adeguato, per offrire ai malati il meglio di quanto è disponibile in fatto di cura e di assistenza.

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