È MORTA ANNA, LA DONNA TRIESTINA CHE HA AVUTO ACCESSO AL SUICIDIO ASSISTITO CON IL SSN
Alla fine Anna è morta con la pratica del suicidio assistito che aveva ufficialmente richiesto all’Asl Friuli: 55 anni, Anna – nome di fantasia per tutelarne l’identità – era affetta da sclerosi multipla secondariamente progressiva e nei mesi scorsi aveva richiesto, facendo attivare l’iter proposto dalla sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo. Dopo i casi di Federico Carboni (primo caso di suicidio assistito avvenuto ormai più di un anno fa) e di Gloria, la 78enne del Veneto morta per eutanasia lo scorso luglio, la battaglia giuridica e sanitaria di Anna si è conclusa lo scorso 28 novembre con la morte in casa della 55enne affetta da sclerosi.
A darne annuncio oggi è l’Associazione Luca Coscioni, ormai protagonista assoluto dei vari casi di suicidi assistiti in Italia (oltre che dell’eutanasia in Svizzera, ndr) dopo il via libera della sentenza della Consulta: «Dopo aver atteso un anno dalla sua richiesta, “Anna” è la prima italiana ad aver completato la procedura prevista dalla Consulta con la sentenza “Cappato\Antoniani”, con l’assistenza diretta del Servizio sanitario nazionale (SSN), a seguito dell’ordine del Tribunale di Trieste», riporta la nota dell’associazione che annuncia la morte di Anna. Una prima volta nella storia dunque con il Servizio Sanitario a fianco della donna che aveva richiesto l’aiuto di Stato per la morte volontaria. Il farmaco letale e la strumentazione sono stati forniti dal SSN con un medico individuato dall’azienda sanitaria del Friuli che, su base volontaria, «ha provveduto a supportare l’azione richiesta nell’ambito e con i limiti previsti dalla Ordinanza Cautelare pronunciata dal Tribunale di Trieste, il 4 luglio 2023, e quindi senza intervenire direttamente nella somministrazione del farmaco, azione che è rimasta di esclusiva spettanza di “Anna”».
SUICIDIO ASSISTITO IN FRIULI, I DUBBI CHE RESTANO: È SCELTA LIBERA?
L’Associazione Coscioni fa notare come il caso di Anna sarebbe potuto essere alquanto simile a quello della regista e attrice Sibilla Barbieri, anche lei dipendente da trattamenti vitali ma “costretta” a morire in Svizzera lo scorso novembre. Con un messaggio lasciato alla stessa Associazione, è la donna morta a Trieste a voler lasciare queste poche parole a corredo della sua vicenda personale: «“Anna” è il nome che avevo scelto e, per il rispetto della privacy della mia famiglia, resterò “Anna”. Ho amato con tutta me stessa la vita, i miei cari e con la stessa intensità ho resistito in un corpo non più mio. Ho però deciso di porre fine alle sofferenze che provo perché oramai sono davvero intollerabili. Voglio ringraziare chi mi ha aiutata a fare rispettare la mia volontà, la mia famiglia che mi è stata vicina fino all’ultimo. Io oggi sono libera, sarebbe stata una vera tortura non avere la libertà di poter scegliere».
Al netto dei tanti casi che ora stanno emergendo in tutta Italia – dal Veneto alle Marche, dal Friuli al Lazio – sulla possibilità di suicidio assistito con la sentenza Cappato-Fabo, restano diversi punti interrogativi nel merito delle singole vicende sanitarie-giudiziarie: come sottolinea all’Avvenire Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia-Sanremo (non da oggi in prima linea sui temi legati al fine vita), «Rispetto e umana pietà per Anna, ma siamo davanti a una scelta certamente non libera ma condizionata da una drammatica situazione». La vicenda di Trieste, aggiunge mons. Suetta, fa ben comprendere il dramma e l’umana pietà provata per questa donna: «Comprendo che le persone possano trovarsi in situazioni tali, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista spirituale e morale, per cui da sole non riescono a vedere alcuna via di uscita. Il problema sta nella cultura di chi porta avanti questo genere di discorsi e nella legislazione dello Stato». Secondo il vescovo di Ventimiglia il rischio non è tanto nei singoli casi di volontaria richieste di “dolce morte” ma nel “contorno” culturale, politico e mediatico che accompagna le vicende di queste persone: «siamo in presenza di una «falsa compassione che si fa scudo di una paura, di una sofferenza purtroppo reale delle persone e sceglie alla fine la via più comoda per la società. È un atto di egoismo, di cinismo da parte della società. Il motore vero sono i costi». Per mons. Suetta, il tema davanti è una sorta di “falsa soluzione”: «La vera risposta sta da una parte nella medicina: e conosciamo quanto le cure palliative abbiano fatto notevoli progressi, quindi opportunamente il malato è messo al riparo da dolori insopportabili. E, soprattutto, bisogna che lo Stato impari a ragionare in termini di cura. La cura non è solo la terapia medica o farmacologica. È farsi carico della persona in tutti i suoi aspetti».