In un paese dove ci si divide su tutto, e dove su tutto nascono tifoserie, sarebbe fin troppo facile guardare alla vicenda del suicidio assistito chiesto da Mario, il nome è di fantasia, con spirito partigiano. E questo non vale solo per i partigiani della morte, coloro che sostengono che Mario fa bene, che se per lui la vita è diventata irriconoscibile e insopportabile, allora è meglio la morte. Fanno impressione questi partigiani perché tra le loro schiere, insospettabile, si annida la mamma di Mario, la donna che lo ha dato alla luce e che adesso – trascorsi dieci anni dall’incidente che ha condannato il figlio ad essere tetraplegico – non riesce che ad essere d’accordo con la decisione del “suo ragazzo”. 



Sarebbe dunque troppo facile guardare a questa storia con lo sguardo dei partigiani della morte, ma sarebbe anche troppo semplice adottare lo sguardo dei partigiani della vita. Infatti non si può non riconoscere il dolore di Mario, non si può non ammettere che esistono momenti dell’esistenza in cui tutto sembra perdere interesse e valore, in cui la natura – per dirla con Leopardi – pare matrigna e ingrata. Dinnanzi ad un male così grande riaffermare solo teoricamente l’indisponibilità della vita umana e la sua sacralità non solo non fermerebbe coloro che vogliono lucrare da questa storia un significativo vantaggio politico, ma non sarebbe abbastanza per accendere nel cuore di Mario e della sua mamma un’altra luce, un’altra idea. 



Allora, anzitutto, occorre partire dalla realtà: è infatti notizia di questi giorni che l’azienda sanitaria locale marchigiana ha individuato il farmaco con cui Mario potrebbe ricevere la morte, il Tiopental sodico. Questo fatto, per il quarantatreenne che ha chiesto di poter morire, è una speranza. “Questa decisione è un sollievo. Dopo mesi di continui ostacoli e una sofferenza sempre più grande, finalmente mi sento sollevato” ha dichiarato commentando la novità. 

All’origine di questa speranza stanno senza dubbio tre elementi che è utile considerare: la prevalenza del dolore, un immaginario di vita colonizzato e le restrizioni relazionali. Mario in questo momento non vede altro che il proprio dolore; le sue ferite – umilianti e terribili – non gli permettono di vedere altro, coprono il suo sguardo. Questa cecità è amplificata da un immaginario che, al pari del nostro, è stato colonizzato: ci hanno spiegato che l’unico modo di vivere è quello disegnato dalla società borghese dei consumi, che non c’è vita al di fuori del camminare, del correre, del divorare l’esistenza, che la vita – insomma – o è l’esercizio di un estetizzante (e anestetizzante) edonismo oppure non è, non vale, non serve. L’incidente ha privato Mario di tutto questo, lo ha privato dell’unico modo con cui gli è stato detto che si possa vivere. 



Aggiungiamoci poi un terzo, decisivo, fattore. Mario in questi tempi vive una restrizione relazionale, non può incontrare altre persone che vivano la sua stessa condizione con scelte e modi diversi. Qui sta il limite di tutta questa faccenda: finché Mario sarà il terreno di scontro delle opposte partigianerie noi non avremo più l’occasione di ascoltare il suo vero bisogno, che è quello di vivere e di condividere. 

La Chiesa, colei che in Occidente ha inventato le università, gli ospedali, i monasteri, è chiamata – se davvero vuole immergersi nelle sfide di questo tempo nuovo – ad una rinnovata fantasia della carità, capace di pensare e sognare luoghi nuovi in cui le persone come Mario possano incontrare altri Mario, dove i parenti di Mario possano condividere il loro peso e il loro dolore con altri parenti di altre persone. Mario ha bisogno di una casa per tornare a guardarsi al di là di ciò che vede e di ciò che sente. Una casa dove imparare che a soddisfare la vita non è il farmaco che ti può far morire, ma un abbraccio per cui vivere.

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