In questi giorni un altro caso di morte, quella di “Mario”, legata a una malattia severa e cronica, con tutto il suo carico di mistero e di dolore, viene buttato in pasto alla voracità delle pagine di cronaca nella speranza che la saturazione dei pensieri del lettore tra guerra, pandemia e siccità faccia ascrivere velocemente la questione nella casella della pietosa bontà dei nuovi diritti civili in via di definitiva conquista.
Sotto le mentite spoglie di un caso estremo la questione che si vuole, per profitto di parte, acquisire è che ciascuno sarebbe padrone della propria vita, avendo così titolo di farne quel che crede in qualsiasi situazione estrema o meno che sia. Il metodo l’abbiamo già visto applicato con tutta la sua efficacia in passato, fatto salvo aver generato effetti opposti a quelli millantati.
La sofferenza brandita come una clava e l’esasperazione come metodo per affermare una pretesa di dominio sono comunque ultimamente contro natura. Per ragionare sulla vita, sul dolore e sulla morte occorrono criteri e tempi adeguati alla questione: pacatezza, ponderazione e molta osservazione della realtà.
“La vita è una cosa meravigliosa e mi dispiace andarmene” è il più ragionevole grido che la natura mette sulle labbra di ogni persona e che ogni altra persona, singolarmente ed assieme ad un popolo, raccoglie come proprio, implicando ogni risorsa perché il desiderio che porta con sé si compia; ammettere o meno questo distingue un legame da un altro ed una civiltà da un’altra.
Vedere persone liete nelle medesime condizioni estreme non esprime una personale opinione, ma rappresenta una possibilità per tutti. Ho visto bambine accompagnare madri in stato vegetativo per anni fino al proprio matrimonio e poi tornare in reparto dopo la morte della madre piene di riconoscenza; ho visto giovani sposi in abito bianco attraversare reparti di hospice scolpendo il sorriso sul volto pallido di un genitore; ho presente Giovanna che dopo vent’anni di Sla dice con la voce metallica del puntatore ottico: “sono io che devo ringraziare voi”.
Mi sono imbattuto nel paragrafo 2278 del Catechismo della chiesa cattolica che recita: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire […]”.
Ecco, accettare quello che non si può impedire fa la differenza con il disporre quel che si può evitare.
Il mistero di una malattia severa, cronica, ingravescente va guardato per quel che dice: non sei il padrone di chi la porta nemmeno fossi tu a viverla. Lo stesso mistero va accompagnato per la sua unicità e autonoma complessità rimettendo alla fecondità di una relazione di condivisione il gesto clinico e specifico che può generare.
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