Il 13 febbraio resterà una data importante per l’Emilia-Romagna. Infatti, ieri ha iniziato il suo iter nell’Assemblea legislativa la proposta di legge di iniziativa popolare presentata dall’Associazione Luca Coscioni sull’introduzione del suicidio medicalmente assistito in tempi e modi certi. L’associazione ha presentato lo stesso testo in quasi tutte le regioni italiane, che in base al proprio statuto stanno rispondendo. Abbiamo tutti in mente, ad esempio, cosa è accaduto in Veneto qualche settimana fa… abbiamo iter avviati anche in Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia-Giulia, Toscana, ecc.
In Emilia-Romagna la proposta è stata dichiarata ammissibile esattamente 6 mesi fa dopo una raccolta lampo di circa 7.000 firme e quindi è stata obbligatoriamente iscritta come primo punto all’ordine del giorno. Cosa è accaduto in questi 6 mesi?
Prima di tutto, con un grande tremore, la domanda “Qual è il mio compito di consigliera regionale ora?” sentendo tutta la responsabilità di essere la prima a trattare questo tema. Questa domanda vera ha aperto un lavoro approfondito di conoscenza, per capire cosa c’è in ballo oltre ai muri ideologici. È stato un periodo intenso di studio delle carte, di interlocuzioni, di dialoghi franchi, di incontri e confronti, con tanti amici vecchi e nuovi con cui abbiamo affrontato i diversi aspetti: costituzionale, medico, sanitario, psicologico e politico.
La proposta di legge si basa sua un’interpretazione forviante della sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale che di fatto ha escluso la responsabilità penale di chi agevola il suicidio, verificate quattro condizioni (persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, con sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli) dai Comitati etici territoriali del SSR. Nella narrazione imperante, per cui ormai tutti dichiarano di dover dare seguito alla sentenza della Consulta, invece si dà per assodato che sia stato definito un nuovo diritto: il diritto incondizionato al suicidio medicalmente assistito e come tale pretendibile dai medici e dalle strutture del SSR. Anche la Consulta Regionale dell’Emilia-Romagna, dando parere di ammissibilità formale del quesito Cappato, ha sollevato i seguenti dubbi: “La sentenza non configura un diritto ad essere aiutati a morire dal Servizio Sanitario Nazionale, ma semmai un diritto a darsi la morte ottenendo da una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale l’accertamento dei presupposti per non punibilità dell’aiuto”.
La proposta di legge, dando per scontato di esigere un diritto sanitario, si pone a un livello di competenze regionali e costruisce in soli 4 articoli tutto l’apparato formale perché il suicidio assistito possa diventare a pieno titolo un LEA. Quindi descrive modalità e tempi certi di applicazione, all’interno del SSR (in tutto 35 giorni fra la richiesta e l’attuazione), senza citare né l’obiezione di coscienza, né la possibilità di cure palliative.
La realtà però ci dice che “dove vengono messe in atto le cure palliative, il ricorso al suicidio assistito o all’eutanasia cala drasticamente. Si ricorre a questa pratica per non soffrire: se si toglie il dolore, la richiesta si riduce di 10 volte. La popolazione non è tanto favorevole all’eutanasia per esercitare un diritto, quanto piuttosto per porre fine a delle sofferenze. Ed è così in tutto il mondo occidentale”. Sulla carta, “due terzi si dichiara favorevole a eutanasia o suicidio assistito. Ma quando si chiedono le condizioni, solo una piccola minoranza è favorevole per esercitare il ‘diritto individuale e non condizionato’. In realtà il motivo è porre fine a sofferenze inestinguibili”. Sono queste le parole di Gianpiero Dalla Zuanna, professore di Demografia dell’Università di Padova, a commento dei risultati di uno studio recentemente pubblicato su ‘Population and Development Review’, di cui è autore con Asher Colombo, sociologo dell’Università di Bologna. Un approccio laico e realista che è stato confermato dal Professor Bruera, in un incontro che ho organizzato lo scorso lunedì 5 febbraio dal titolo “No alla proposta di legge Coscioni sul suicidio assistito. Investire nelle cure palliative” e disponibile on-line.
Ho avuto il grande onore di confrontarmi con il Professor Eduardo Bruera, fondatore e Direttore del Dipartimento di Medicina palliativa, riabilitativa e integrativa presso l’MD Anderson Cancer Center dell’Università del Texas, che lo scorso giugno è stato insignito del Sigillum Magnum di Ateneo dall’Alma Mater Studiorum. Il Professor Bruera ci ha raccontato della sua esperienza che si inserisce nella evoluzione delle cure palliative. La sua equipe è stata infatti la prima a introdurle a livello ambulatoriale, oltre che negli ultimi giorni di vita del paziente.
Ormai le cure palliative sono una realtà che va oltre i malati oncologici, ma che può accompagnare ogni malattia e per un periodo molto lungo. Il palliativista, infatti, è chiamato a guardare al malato e non alla malattia. Questo approccio consente anche al sistema sanitario un risparmio complessivo, perché il paziente che non è “addolorato” riesce a interagire meglio anche con gli altri specialisti e con la terapia medica. Fino all’ultimo la vita può essere accompagnata e sostenuta, nella relazione personalizzata con i familiari, gli amici e l’equipe medica. Ci ha detto Bruera: “Un reparto dove non vengono celebrati matrimoni non è un buon reparto”.
Il DM77 del 2022 di riorganizzazione del sistema sanitario ha un capitolo dedicato alle cure palliative che devono essere in ambito ospedaliero, ambulatoriale, domiciliare e in hospice: “Le cure palliative sono rivolte ai malati di qualunque età e non sono prerogativa della fase terminale della malattia. Possono infatti affiancarsi alle cure attive fin dalle fasi precoci della malattia cronico-degenerativa, controllare i sintomi durante le diverse traiettorie della malattia, prevenendo o attenuando gli effetti del declino funzionale”.
Gli obiettivi del DM77 sono 1 unità di cure palliative domiciliari ogni 100.000 abitanti, che in Emilia-Romagna corrisponde a 44 e 8/10 posti letto in hospice ogni 100.000 abitanti (quindi da 350 a 450 posti letto). In Emilia-Romagna oggi sono 22 gli hospice attivi, con 290 posti letto.
Nel 2022 sono deceduti 17.570 pazienti oncologici, di questi il 22% è stato assistito in un hospice negli ultimi 30 giorni di vita, solo il 26% è stato assistito in ADI (assistenza domiciliare integrata) con cure palliative negli ultimi 30 giorni di vita. Solo 1.294, pari al 7,4% hanno potuto ricevere cure palliative sia in ADI che in hospice.
L’assistenza domiciliare è anche un obiettivo della Missione 6 del Pnrr; componente 1. C’è un finanziamento di 2.720 miliardi di euro con un target da raggiunger il entro 2026 del 10% della popolazione in età superiore ai 65 anni. L’Emilia-Romagna ha presentato nel 2023 un Piano di potenziamento delle cure palliative con una proposta di riorganizzazione del servizio e un’implementazione specifica dedicata alla rete pediatrica. Non sono ancora all’orizzonte delibere attuative del Piano, con la stessa solerzia mostrata in questi giorni dalla Giunta Bonaccini.
Il dialogo di questi mesi con i colleghi dell’Assemblea legislativa è stato a questo livello: qual è il nostro compito? Essere pedine di un disegno nazionale che usa le regioni per mettere alle strette il Governo nazionale o dare risposte concrete ai cittadini che chiedono di essere accompagnati di fronte alla sofferenza? Veramente quello che desideriamo per noi stessi e per i nostri amici è chiudere il problema in 35 giorni?
I numeri paventavano un voto contrario alla legge di 27 consiglieri su 50 e una replica di quanto avvenuto in Veneto. Per questo Bonaccini è intervenuto a gamba tesa con una delibera di Giunta, di fatto anticipando i tempi e anestetizzando l’iter legislativo partito ieri.
La delibera di Giunta, scritta in fretta e molto pasticciata, mostra il fianco a profili di illegittimità evidenti, che mi consentono un ricorso al Tar.
La delibera istituisce un nuovo comitato che dovrà occuparsi di esprimere un parere nei casi di richiesta di suicidio medicalmente assistito, chiarendo tempi, modi e luoghi, in un tempo massimo di 42 giorni. Non vengono utilizzati i già esistenti Comitati etici territoriali, citati nella sentenza 2019 della Consulta, i cui membri sono scelti tramite bando pubblico per titoli. I membri del comitato Bonaccini sono invece già elencati nella delibera, scelti non sappiamo con quali criteri.
Mentre i Comitati etici territoriali garantivano nell’idea della corte un’omogeneità territoriale, qui ci troviamo di fronte a una regione, che per paura del confronto, traccia una strada diversa.
Si va palesando un’inedita forma di federalismo sanitario, in una regione che ha sempre combattuto l’idea di federalismo in ambiti molto meno rilevanti.
Bonaccini ha risposto di non avere nessuna paura di un ricorso al Tar e invece il suo alzare la voce, che abbiamo imparato a conoscere, è proprio il segno della paura. Paura del dialogo nella sua stessa Assemblea legislativa, paura del confronto e dell’ascolto.
E invece, come ci ha mostrato Zuppi, c’è un livello di guardare la morte e la sofferenza da uomini, che va oltre le scorciatoie normative e ci chiede di rispondere a domande scomode, ma che sono il terreno di incontro con tutti. La storia di questi mesi me lo dimostra.
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