“Ai miei fratelli: ho provato a sopravvivere ma ho fallito. Ai miei amici: l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Al mondo: sei stato davvero crudele, ma io ti perdono”. Sono queste le ultime parole scritte da Sarah Hegazi prima di togliersi la vita. Classe 1990, la storia pubblica di Sarah – egiziana rifugiata in Canada – era nota tra i millennials di tutto il mondo: attivista della comunità LGBTQI+, si era esposta nel 2017 durante un concerto della band mediorientale dei Mashrou Leila, gruppo borderline tollerato dalle autorità egiziane nonostante le dichiarate posizioni progressiste; Sarah era stata fotografata e denunciata per aver esposto con orgoglio la bandiera arcobaleno, considerata una minaccia alle tradizioni e alla cultura locale, e per queste ragioni era stata arrestata e trattenuta per qualche tempo nelle carceri del Cairo in un regime che gli italiani oscuramente comprendono ripensando ai nomi di Giulio Regeni e Patrick Zaky.



L’esperienza era stata uno spartiacque che aveva mosso Sarah a chiedere asilo politico in Canada per provare – come possibile – a ricominciare. Poi tre anni di mistero, fatti di post, di una vita che cerca forma, espressione, felicità. E infine il gesto suicida con il quale in poche ore è diventata simbolo di una disperazione, di un’ingiustizia e di un dolore che non conosce né oriente né occidente.



Di lei in queste ore hanno scritto in tanti, dai ragazzi più comuni a Roberto Saviano, ognuno desideroso di raccogliere la sua storia e raccontarla come spinta per il proprio modo di pensare e di sognare il mondo.

Sarebbe facile in questo momento sia entrare nel gioco e unirsi al coro, raccogliendo un discreto numero di applausi, sia schierarsi tra coloro capaci di scindere tra la persona e il personaggio per denunciare strategiche strumentalizzazioni.

Eppure, in tutti questi anni di commenti alle vicende di cronaca, di articoli azzeccati e altri invece terribilmente sbagliati e scritti col cipiglio moralista del maestrino, l’opinionista non può che sommessamente far notare che le storie delle persone che incontriamo nelle cronache sono misteri indisponibili all’ideologia di chiunque: non si può afferrare ogni fatto che accade per costruire ossessivamente e compulsivamente il proprio fortino e la propria verità.



Le lacrime degli altri non sono versate per consentire al popolo pagante di ricamare idee e convinzioni. L’uso improprio di cadavere cui la stampa si dedica abitualmente in questi casi non è altro che l’ultima violenza verso volti e desideri di cui nessuno conosce la profondità. Come la regina Gezabele, anche le nostre sicurezze e bramosie sembrano disposte a sacrificare tutto pur di trovare riscontro, affermazione, successo.

In questa perenne battaglia per evitare che qualcosa ci metta in discussione ciò che avanza è la sfiducia, la rabbia, il complottismo e una sterminata solitudine. Viviamo tra i nostri simili, ma di fatto siamo tornati in cattività, pronti ad aggredire con congetture e ragionamenti ogni barlume di realtà che ci è donata per iniziare un cammino e fare una vera strada.

È anche per questo che giovani come Sarah muoiono: circondati da tifosi e nemici vengono lasciati soli nella partita più importante, quella di fronte all’abisso. Quanti figli trattati così! Quanti amici, quante parti di me! Ogni giorno muore una Sarah, spinta alla tragedia da un tempo che trova in lei motivi di esaltazione e di scandalo, ma mai lo spunto per un istante di silenzio che desideri soltanto restituirle dignità.