Nella nuova guerra fredda tra Usa e Cina ora tocca alle armi ideologiche. Oggi e domani il presidente Usa Joe Biden metterà in collegamento virtuale circa 110 democrazie nel mondo scelte dagli Stati Uniti. Un summit che comprende naturalmente anche i paesi Nato, ma non tutti, perché Ungheria e Turchia non sono stati invitati. Ci saranno l’Ucraina e Taiwan, ma non la Cina.
Il vertice globale delle democrazie è un obiettivo che Biden aveva annunciato fin dal 2019, ancora prima di ufficializzare la sua corsa alla Casa Bianca. Siccome la difesa dei valori democratici “è impressa nel nostro Dna come nazione”, ha dichiarato Biden, gli Usa intendono riunire – recita il sito The Summit for Democracy del dipartimento di Stato americano – “leader del governo, della società civile e del settore privato per definire un’agenda propositiva per il rinnovamento democratico e affrontare, attraverso un’azione collettiva, le maggiori minacce fronteggiate dalle attuali democrazie”. Qualcuno ha giustamente sottolineato che l’iniziativa Usa si colloca in una regione quantomai ambigua, che mette insieme geopolitica degli Stati e valori morali, ovviamente quelli con il timbro di Washington.
In questo spazio si è subito infilata la grande esclusa, la Cina, che ha risposto con un libro bianco dal titolo Democrazia cinese all’iniziativa americana. Il suo contenuto può essere facilmente dedotto dalle dichiarazioni rilasciate all’AdnKronos il 6 dicembre dall’ambasciatore cinese in Italia Li Junhua. “La democrazia è un valore comune a tutta l’umanità e un concetto fondamentale che il Pcc e il popolo cinese hanno sempre sostenuto” ha spiegato il diplomatico, dando voce alla linea di Pechino. “Il mese scorso” ha proseguito Li “durante la sesta sessione plenaria del 19esimo Comitato Centrale del Pcc, è stato rilasciato un comunicato in cui si sottolineano gli sforzi della Cina nello sviluppo di un processo di democratizzazione popolare e nella promozione dell’istituzionalizzazione, della standardizzazione e della proceduralizzazione di una democrazia socialista”. Un’agile scorsa alle parole dell’ambasciatore evidenzia bene il concetto di fondo: non possono essere gli Stati Uniti a stabilire il perimetro della democrazia, decidendo chi è dentro e chi è fuori.
Secondo Francesco Sisci, sinologo e giornalista per più di trent’anni in Cina come corrispondente per varie testate, oggi opinionista e docente alla Luiss, il documento cinese crea più contraddizioni di quante ne risolve. Proprio per questo, secondo Sisci, è una novità per il Dragone.
Sisci, cosa dice il libro bianco?
Il documento contesta agli Usa il monopolio del concetto di democrazia e sostiene che di democrazia ce n’è di tanti tipi. Nessun paese ha il brevetto.
È lo stesso concetto difeso dall’ambasciatore cinese a Roma Li Junhua. “La democrazia non è un prodotto in serie, ma un’esplorazione modellabile a seconda delle condizioni di un Paese”, ha detto.
Il problema è chiaro. Il concetto di libertà che la Cina chiede all’esterno può negarlo all’interno? Se all’esterno nessuno può negare alla Cina la sua idea di democrazia, il partito può negare all’interno l’idea di democrazia dei vari cinesi? Se la Cina vuole libertà nella definizione di democrazia tra gli Stati, cioè se dice “ogni stato definisce la democrazia come gli pare opportuno”, allora al suo interno, Pechino dovrebbe concedere ai cinesi, alle varie località, la stessa libertà di definire la democrazia. Se l’America non ha diritti esclusivi nella definizione di democrazia, come fa ad averceli al suo interno il governo cinese? La Cina dovrebbe concedere allora a ciascun cinese il diritto di scegliersi la sua democrazia, come il governo di Pechino rivendica con Washington, altrimenti si contraddice da sola.
Come se ne esce?
Per Pechino sarebbe più conveniente concordare con l’esterno, con l’America, un’idea di democrazia e poi applicarla all’interno. Altrimenti ci sono due possibilità. O la Cina è nella contraddizione di usare concetti diversi per l’interno e l’esterno.
Oppure?
Se Pechino concede all’interno la stessa libertà che chiede all’esterno, con tanti cinesi ciascuno con la sua idea, allora la Cina va nel caos.
Si spieghi meglio.
Se la democrazia ha a che fare con lo Stato, varia da luogo a luogo: quindi c’è la democrazia di Guangzhou, quella del Sichuan, quella di Pechino e quella di Shanghai. Dopo di che c’è il distretto occidentale, il distretto orientale… e così via. Sarebbe ancora più confuso usare questo concetto. Questo fenomeno si è visto quando la Cina usò il concetto di “caratteristiche cinesi” per spiegare la sua via di sviluppo originale. Però l’idea delle “caratteristiche cinesi” aprì al concetto delle varie caratteristiche locali, di Pechino, Shanghai, Canton eccetera. Cioè i governi locali facevano resistenza alle leggi nazionali in nome di “caratteristiche locali”. Così tutto diventò più caotico.
Nel libro bianco non c’è un concetto più sostanziale e meno formale di democrazia?
Certo. La Cina definisce la propria democrazia come “popolare” e afferma di rispettare e rispecchiare davvero gli interessi e la volontà del popolo. In polemica con le democrazie occidentali, dove gli interessi della gente sono dirottate dagli interventi dei gruppi di interesse che cercano di mettere lo stato a servizio delle proprie agende particolari.
Che la Cina sia uno Stato in cui la “volontà del popolo” è decisa dal partito comunista, lo sappiamo. Ma la critica è fondata.
In effetti si mette il dito su una piaga enorme delle democrazie liberali, che c’è sempre stata, ma che adesso, in particolare dopo l’esperienza del populismo estremo di Trump che ha negato il risultato del voto, e con lo strapotere di industrie della rete spesso monopolistiche, sta avendo un risalto e un impatto molto maggiore. C’è però una cosa da aggiungere.
Quale?
Diversamente dall’Urss, la Cina non dice che il suo modello di democrazia è superiore o migliore di quello liberale. La Cina dice: ci sono tante democrazie, perché voi occidentali ma soprattutto tu, America, negate la mia? Questo argomento è effettivamente solido e condivisibile. Ma negando la superiorità del proprio modello, negando che i due modelli siano radicalmente alternativi, come diceva l’Urss, il problema rimane.
In che modo?
Come fa Pechino a negare ai cinesi la libertà di scegliersi la democrazia che vogliono, quando Pechino rivendica questa libertà nelle relazioni tra gli Stati, America compresa?
In altri termini?
L’argomento cinese sarebbe vincente se poi le varie regioni della Cina si scegliessero il loro modello di democrazia liberamente.
Ma così non è.
No, infatti. Pechino si è messa in un cortocircuito logico, che è essenziale ed esistenziale. Il fatto che questo cortocircuito sia venuto a galla mi sembra importante e fondamentale e rivela correnti carsiche profonde in azione sotto la superficie e anche nel retro-pensiero degli estensori del documento, quasi un lapsus freudiano. Questi non credono e non vogliono un sistema totalitario per tutto il mondo; vogliono, almeno per adesso, un sistema globale in cui il proprio sistema di governo possa sopravvivere, possa avere cittadinanza. In futuro certo potrà cambiare tutto, in un senso o in un altro.
E se la contraddizione non viene risolta?
In tal caso il sistema ideologico cinese si mette nella posizione peggiore di tutte. Non si può stare in due sedie. È una posizione di grande instabilità ideologica. Certo, solo gli intellettuali si possono rendere conto della contraddizione, ma sono loro il motore, i grandi sacerdoti del sistema. Se essi stentano a metterlo in ordine, tutto è più fragile.
Cosa significa in concreto?
Che nessun governo può reggersi eccessivamente sulla forza e questo non può durare troppo a lungo, se non a costi crescenti.
Che sviluppi poterebbe avere questa vicenda?
Gli sviluppi non li sappiamo, l’importante intanto è isolare il problema. Se la Cina dichiara una guerra ideologica alle democrazie liberali, come aveva fatto l’Urss, allora avrà il problema di dover cercare di esportare il proprio sistema.
Ma lei ci ha detto che la Cina non vuole questo.
No, infatti, perché la Cina ha capito la lezione dell’Urss. Esportare il proprio sistema ha avuto effetti pessimi per l’Unione Sovietica; per la Cina, tuttavia, accusare questi effetti sarebbe cosa molto più difficile.
Oppure?
In alternativa, la Cina deve venire a patti con il sistema liberale occidentale. Cosa anch’essa molto difficile, ma forse meno di una guerra ideologica con l’occidente.
(Marco Tedesco)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI