In Siria comanda la Turchia, ma anche l’Occidente, Italia compresa, può avere un ruolo nella rinascita del Paese. E comunque si tratta di un dossier troppo importante per non affrontarlo immediatamente dal punto di vista umanitario, politico, economico. Per questo, si riuniscono oggi a Roma i ministri degli Esteri del Quintetto (Italia, USA, Gran Bretagna, Francia e Germania) insieme all’Alto rappresentante per gli Affari esteri della UE, per delineare una strategia di intervento. Dovranno per forza di cose agire di concerto con Erdogan, spiega Mauro Indelicato, giornalista di Inside Over e Affari Italiani, oltre che docente di Unicusano, ma possono contribuire alla ricostruzione di un Paese devastato, senza autostrade, ferrovie, infrastrutture in generale. L’Europa, che mira a far rientrare in patria milioni di profughi siriani, non dovrebbe però pensare a questo come priorità. La prima cosa da fare è inviare aiuti umanitari per una popolazione allo stremo: altrimenti, finita l’euforia per il cambio di regime, si rischiano disordini sociali dalle conseguenze inimmaginabili. Sarebbe importante togliere subito quelle sanzioni economiche che l’Occidente ha imposto ad Assad ma che hanno affamato solo i siriani.
In Italia si riunisce il Quintetto con USA, Regno Unito, Francia e Germania per parlare della situazione in Siria. Il Paese è evidentemente sotto l’egida della Turchia; gli occidentali che ruolo possono avere?
La Siria è sotto l’egida turca come prima era sotto quella russa e iraniana. Dal punto di vista occidentale, meglio avere a che fare con Ankara che con Mosca e Teheran: pur avendo un’agenda autonoma, la Turchia è pur sempre un Paese della NATO ed Erdogan, tra mille contraddizioni, è formalmente un alleato. L’Occidente ha maggiori possibilità di dire la sua.
Ma la Siria, in questo senso, può fare da ponte tra Turchia e UE, in qualche modo riavvicinarle?
Per la Turchia è un bel banco di prova: Erdogan, dopo aver studiato molto da potenza mondiale, adesso deve dimostrare che non solo può conquistare un Paese ma può anche gestirlo. Lo sviluppo della situazione siriana avrà una forte influenza nei rapporti tra l’Unione Europea (o comunque l’Occidente) e la Turchia.
All’incontro di Roma sono annunciati il segretario di Stato USA, Anthony Blinken, e l’Alto rappresentante UE per gli Affari esteri, Kaja Kallas. L’Europa che spazio può ritagliarsi in Siria dal punto di vista diplomatico, economico o anche militare?
Si riprende un po’ da dove si era partiti, dal 2011, anno in cui l’Europa ha rotto i ponti con Damasco. La teoria secondo cui Assad era antioccidentale è stata accreditata dopo l’inizio della guerra civile. In realtà, prima del 2011, i rapporti tra la Siria e l’Europa erano molto intensi: l’Italia era tra le prime due fonti di approvvigionamento. Napolitano aveva conferito un’onorificenza italiana ad Assad proprio in virtù della laicità del Paese. La Siria, pur non avendo il petrolio iracheno o iraniano, ha le sue risorse naturali e poi c’è un tema importante che è quello della ricostruzione: è devastata, non c’è una città che non abbia centri storici distrutti, zone abitate bombardate.
L’Europa, quindi, può essere protagonista nella ricostruzione?
Le nuove autorità sono molto vicine alla Turchia, che però non può rilanciare il Paese da sola. Lo stesso Al Jawlani ha aperto più volte a una ricostruzione trainata dall’Europa, lo testimonia il recente incontro con i ministri degli Esteri di Francia e Germania, ma anche con i rappresentanti diplomatici italiani a Damasco.
Chiederemo come al solito in cambio delle garanzie di democrazia e di rispetto dei diritti umani?
Sarebbe auspicabile: non dimentichiamo che Al Jawlani, o Al Sharaa che dir si voglia, è stato pur sempre un capo di Al-Qaeda nella regione. Prima di chiudere qualsiasi accordo meglio pretendere il rispetto delle minoranze e della libertà di pensiero.
Di diritti umani e rispetto di tutte le comunità si dovrebbe parlare nella Conferenza sul dialogo nazionale che darà il via al dibattito sulla nuova Costituzione. Ma il livello di emergenza nel Paese impone che si intervenga subito, magari allentando quelle sanzioni che hanno ostacolato finora la ripresa?
Le sanzioni dovevano essere tolte anche prima: più che colpire Assad, che alla fine ha mantenuto ugualmente la sua collezione di Ferrari in garage, hanno preso di mira la popolazione. Danneggiano sempre la popolazione e quasi mai i regimi contro cui sono dirette. Andrebbero comunque rimosse: questa deve essere la priorità. Bisogna evitare che la Siria scivoli in una situazione ancora più grave dal punto di vista economico e sociale, fare in modo che abbia i mezzi per risollevarsi. Diversamente, fra non molto rischia di vedere al suo interno ulteriori focolai di violenza.
C’è bisogno di una sorta di piano Marshall, di interventi immediati?
I numeri parlano chiaro: su 24 milioni di abitanti pre-guerra, soltanto 12 sono rimasti; c’è un 50% dei siriani all’estero e chi è rimasto vive in una situazione di povertà estrema. C’è un Paese che ha diritto ad avere i servizi essenziali: acqua, cibo, elettricità. I siriani vanno aiutati a uscire da una situazione umanitaria che è catastrofica. E questo per ragioni etiche di base, ma anche di natura politica. L’Europa vorrebbe un piano per reinserire i migranti siriani in Siria, ma in questo contesto pensare che i siriani tornino nel loro Paese di origine è assolutamente impossibile. Serve subito un intervento umanitario, perché la situazione è sostanzialmente al collasso.
Gli americani hanno allentato un po’ le sanzioni, almeno per quanto riguarda le ONG e gli interventi umanitari.
Questo consentirà di far affluire più cibo nell’immediato: è un primissimo passo, ma le sanzioni vanno eliminate in toto.
L’Italia in particolare che ruolo può avere? È penalizzata dal fatto di aver ripreso le relazioni diplomatiche con la Siria questa estate, quando Assad era ancora in sella?
Paradossalmente, proprio la nostra presenza durante gli ultimi mesi del governo di Assad può essere un beneficio: eravamo l’unica rappresentanza occidentale aperta quando sono arrivati i miliziani. Siamo i primi europei con cui hanno parlato. E abbiamo mantenuto l’ambasciata aperta nonostante il vuoto di potere delle prime ore del crollo del regime.
Quindi possiamo contribuire alla ricostruzione?
Assolutamente sì. Abbiamo società che in Medio Oriente hanno costruito metropolitane e importanti infrastrutture. In Siria bisogna quasi ripartire da zero: ad Aleppo il 60% della città è distrutto da 12 anni; a Homs ci sono interi quartieri da ricostruire, nonostante non si combatta da più di dieci anni. Lo stesso discorso vale per i sobborghi di Damasco, le autostrade, le ferrovie. L’Italia può dire la sua anche in campo alimentare.
I Paesi occidentali che si riuniscono a Roma terranno conto di tutte queste considerazioni? Quanto è importante la partita anche per loro?
L’Europa comunque si sta muovendo, anche se forse in maniera contraddittoria, ha capito che la Siria è un dossier troppo importante per rimanere inermi. Quindi mi aspetto una discussione, come dire, più costruttiva rispetto a quelle precedenti. La nostra classe dirigente non è molto brava negli ultimi tempi a interpretare i fatti, ma qui l’evento è fin troppo fresco per non essere compreso appieno.
(Paolo Rossetti)
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