Quindi neanche suor Cristina, al secolo Cristina Scuccia, aveva fatto la scelta giusta. La popolarissima suora, che nel 2014 aveva conquistato la giuria di The Voice of Italy, ha raccontato in tv la propria decisione di lasciare l’abito. Lo ha fatto con gratitudine e umiltà, dimostrando rispetto per il tempo vissuto in convento e desiderio di voltare pagina.
Nessuno può ergersi a giudicare il percorso altrui, specie se vissuto senza risentimenti e rivendicazioni. Casi come quelli di suor Cristina aumentano sempre di più, come aumentano i matrimoni che finiscono.
Il dato è particolarmente significativo in Europa, con una diminuzione netta – negli ultimi dieci anni – del 30% delle vocazioni sacerdotali e religiose e un incremento altrettanto impetuoso delle separazioni e dei divorzi. Siamo ben lontani dalla prosa manzoniana che, parlando della monaca di Monza, afferma che l’infelice avrebbe potuto sperimentare la vera gioia se avesse accettato comunque di vivere seriamente la vocazione non scelta. Oggi quello che conta è la realizzazione personale, la scelta che “ti fa felice”, come se esistesse una strada che non debba essere riconquistata ogni mattina. Nella verginità come nel matrimonio è la fedeltà che dischiude alla profondità, è il permanere che apre alla gioia e alla verità.
Ma perché uno dovrebbe rimanere con un marito che s’accorge di non amare più o in un convento da cui si sente tutto ristretto? Non è questa una mortificazione dell’umano, un tradimento del cuore?
Il punto è che è stato proprio l’umano, proprio il cuore, in un impeto di vita, a portarti con quell’uomo, con quella donna, dentro quell’abito. Dare fiducia a quell’impeto anche quando non c’è più significa dare fiducia a se stessi, alla propria ultima intuizione.
Certo, si potrebbe obiettare, ma perché quell’intuizione dovrebbe essere più giusta e più vera di quella che ho adesso? Perché quel nuovo bene che scorgo con la coda nell’occhio, quella nuova libertà che già pregusto, dovrebbe avere meno valore dell’istante in cui ho scommesso la mia vita su mio marito, su mia moglie o su un’appartenenza religiosa?
Il fatto è che quell’intuizione, quell’istante di scommessa, tu l’hai portato di fronte a Dio. E Dio, spiace ricordarlo, esiste. E allora è Lui che ha preso quel desiderio sul serio più di te, è Lui che ha scommesso sé in quello che hai scommesso tu. Ed è Lui che può far fiorire ciò che oggi è arido, misero, appassito, perfino odiato. Il nostro cuore non è fatto per i capricci, non è fatto per una corrispondenza estetica – sentimentale – fine a se stessa: il nostro cuore è fatto per l’infinito, è fatto per il Mistero, è fatto per Dio.
Ed è Lui a continuare a desiderare quando noi non desideriamo più. Se non posso amarti per l’amore che non ho, posso sempre amarti per l’amore che mi è dato. È in quel frangente, in quella croce, che l’uomo rivela davvero se stesso come figlio. Fidandosi che consegnando se stesso a ciò che apparentemente non capisce, ma che è conseguenza di ciò che un tempo ha scelto, arriverà una resurrezione – una vita! – più grande e più vera.
Il problema della vita non è, dunque, fare la scelta giusta. Il problema della vita è fare una scelta vera. Ed è su quella verità che uno si può giocare tutto, anche quando niente torna e qualcosa di più raro e più fresco fa sobbalzare il cuore.
Nessuno può rimproverare a suor Cristina di essersene andata, ma nessuno può sapere chi sarebbe diventata Cristina se fosse rimasta. Se Cristo è vivo, allora qualunque vita ha ancora una possibilità.
A ben vedere è questo il più grande tormento dell’uomo contemporaneo: essere talmente nelle proprie mani da aver dimenticato che cosa succede a chi si fida di un Padre. In questo tempo di orfani, dove tutti abbandonano e scelgono altre strade, la vera rivoluzione è quella di essere figli. Di accettare la definitività come l’unica strada possibile ad ogni fecondità. Perché in mezzo a tante cose giuste, il cuore – in fondo – ha bisogno di una cosa vera.
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