Con il decorso epidemiologico si è ampliato il divario tra i diversi Paesi aderenti all’Ue e le conseguenze negative di tale situazione ricadono principalmente sugli Stati che adottano l’euro come moneta di scambio.
In effetti la Bce si trova a operare solo formalmente in piena autonomia rispetto ai singoli governi, ma la gelosia unita all’invidia tra i diversi “competitors” la blocca. Nota bene: non è un errore, proprio di “competitors” dobbiamo parlare visto che questa Ue è più una corsa a “fregare il prossimo” che un’unione di Stati che vogliono essere più forti insieme, pur nelle loro sostanziali differenze, al punto che più che aderenti solidali, essi impediscono l’adozione di quelle misure necessarie che la stessa Bce, proprio per l’avversione alla solidarietà che traspare da questa Unione europea – nonostante i proclami contrari che in Italia vengono sbandierati impedendo così la crescita del “progetto Europa” -. verosimilmente non è nemmeno in grado di percepire, ipotizzare e quindi tantomeno adottare.
Il recente apprezzamento dell’euro potrebbe facilitare l’operatività dell’Istituto centrale europeo che viene sottoposto a maggiori pressioni affinché fornisca più stimoli ad affrontare la bassa inflazione che esso dovrebbe riportare a livelli prossimi al 2% (tasso d’inflazione preso come parametro rigido di tutte le politiche economiche finora attuate e che, a parere di alcuni economisti, dovrebbe essere invece flessibile nel medio-lungo periodo per affrontare situazioni di shock e recessione). Anche in questo, tuttavia, non va oltre il “proclama” di voler adottare una politica di recupero dei bassi tassi di inflazione consentendo moderati superamenti dal limite superiore per potersi attestare a un valore medio di quel tasso nel lungo periodo, cosa che nel primo ventennio dell’euro non è stata fatta e che perciò è un nuovo correttivo per cercare di ovviare a uno dei tanti errori costitutivi della moneta unica, ma i soli correttivi non hanno né la capacità, né la possibilità di rimediare alla mancanza di quegli strumenti indispensabili per sopperire agli orrori causati da una moneta emessa esclusivamente a debito.
Al riguardo, mi preme evidenziare che, nonostante la politica di espansione monetaria avviata negli Stati Uniti d’America per supportare ancora meglio la linea tracciata da Trump per il miglioramento dell’economia statunitense – nonostante quanto sostengono ad alta voce, per non dire strillando in modo da far tacere gli altri, alcuni pseudo commentatori italiani – la Banca centrale cinese ha leggermente svalutato la propria moneta rispetto al dollaro, mentre la Bce se non adotta una politica per ridimensionare i vantaggi differenziali che ricadono sui soliti Paesi aderenti si troverà a non essere riuscita a cavare il ragno dal buco.
In questo contesto, tenendo conto del divario economico visibile nei Paesi dell’Unione europea dell’euro, se l’operatività della Bce si basasse sulla sua indipendenza e fossero eliminate le limitazioni all’esercizio pieno delle sue funzioni (decise dall’egoismo dei Paesi che ora vengono definiti frugali – nella nomina ma non nei fatti), avremmo la più dinamica Banca centrale continentale capace di intervenire sui mercati mondiali piegandoli ai suoi desiderata. Viceversa, assistiamo all’assoluta incapacità di conseguire gli obiettivi in termini di inflazione e di incidere positivamente sull’armonico sviluppo degli Stati aderenti. Dopo vent’anni di continui insuccessi e di inutili speranze frustrate, non si intravvede alcun segnale riorganizzativo e di ridefinizione statutaria.
Nella situazione attuale sono sempre i Paesi frugali a ottenere i maggiori benefici perché nel contesto attuale essi si avvantaggiano per l’uso di una moneta più debole di quella che loro potrebbero mantenere se non ci fosse la Bce che non ha alcun potere di imporre agli stessi di non drenare dal mercato il denaro in circolazione scaricandone i costi sugli altri Stati e costringendo questi a distruggere i propri soggetti passivi di imposta.
Qualcuno potrebbe pensare che con la vecchia lira sarebbe bastato svalutare e ripristinare le condizioni di concorrenzialità, cioè sarebbe bastato emettere un quantitativo aggiuntivo di moneta per diminuirne il potere di acquisto. Questa, però, è un’affermazione semplicistica perché quando avevamo la nostra lira (la cosiddetta “liretta” che, nonostante i suoi pseudo difetti, ci ha permesso uno sviluppo economico e un benessere da quarta potenza mondiale – titoli di quotidiani del 1991), avevamo i politici meridionali che si comportavano in Italia come si comportano i politici italiani in Europa: non puntavano i piedi e non consentivano l’affrancamento del Mezzogiorno dal giogo finanziario. Allo stesso modo tutti decantano e affermano la bontà dell’appartenenza al contesto unionista europeo, ma nessuno può (e riesce a) dimostrarne i vantaggi, perché l’euro e l’Europa (così pensati e strutturati) hanno palesato esclusivamente i danni che producono e non possono fare altrimenti.
La politica monetaria che deve sopperire alle distorsioni della politica economica, è molto più complessa della semplice svalutazione. Tra la lira e l’euro, l’unico vantaggio di quest’ultimo è rappresentato dalla circostanza che i singoli Stati hanno confini ben definiti e rilevazioni statistiche delineate in grandi aree di aggregazione; pertanto il compito della Bce è molto più semplice. Infatti, il riequilibrio realizzabile con la politica monetaria riguarda i differenti territori nella loro interezza. La gestione della lira, invece, comportava il recupero dei dati mancanti a livello territoriale locale, senza che vi fossero organismi deputati a tale scopo, perciò era un’attività molto più complessa; ciononostante, se si esclude il lungo periodo che va dalla fine degli anni ’70 agli inizi degli anni ’90, caratterizzato dall’allontanamento da parte della Magistratura del Governatore Paolo Baffi – di cui erano note l’avversione silenziosa per motivi istituzionali all’euro e l’indifferenza per l’inflazione anche a due cifre -, l’attenta gestione della politica monetaria ha sempre sopperito all’insufficienza della politica economica italiana.
Per noi italiani, abituati agli interventi decisivi della Banca d’Italia – almeno fino alla prima metà dello scorso decennio – l’azione della Bce ci sta stretta, anzi, sarebbe meglio che non ci fosse e questo è noto a chi ha seguito i miei articoli e ne ha assunto buona consapevolezza. Il problema è che gli Stati frugali ottengono l’avallo dei politici italiani, che hanno sottoscritto (più o meno sottobanco, facendoci pagare soltanto gli effetti devastanti successivi) accordi altamente penalizzanti: vale la pena ricordare l’ultimo accordo relativo al Recovery fund, il sistema per il quale vengono emessi titoli i cui debitori sono tutti i Paesi europei. Il nostro Governo è andato in giro per l’Europa a convincere tutti alla firma dell’accordo accettando di concedere proprio ai Paesi frugali una consistente riduzione delle quote di contribuzione annuali al bilancio europeo per i 7 anni di valenza degli accordi, cioè dal 2021 al 2027.
Per convincerli, si è accollato oltre i due terzi del risparmio accordato. La decontribuzione concessa ad Austria, Danimarca, Germania, Olanda e Svezia ammonta a oltre 7,6 miliardi annui, oltre 53,2 miliardi nel periodo. In relazione a ciò, il debito italiano costerà nei primi sette anni all’incirca 35,5 miliardi di euro di interessi in più camuffati come contribuzione al bilancio europeo, pari a un costo che colloco tra i 300 e i 450 punti in più rispetto al tasso di remunerazione dei titoli emessi, in relazione alla circostanza che l’incasso delle tranche di emissione dei titoli europei saranno anch’esse spalmate nell’arco del settennio. Siamo a settembre inoltrato e ancora non si parla di regolamento per l’emissione dei titoli, perciò la mia è una stima molto, ma molto sottostimata.