I costi fuori controllo del Superbonus 110% per le ristrutturazioni abitative sono l’indicatore più evidente dell’impazzimento collettivo che ha caratterizzato tre anni di erogazioni finanziarie dissennate da parte dello Stato. Con effetti che rischiano di essere letali per la sostenibilità presente e futura dei conti pubblici.



Le conseguenze di medio periodo dell’epidemia Covid sulla salute dei cittadini non sono del tutto note. Ma quelle relative alla perdita del buon senso della classe dirigente del nostro Paese erano già evidenti a partire dall’approvazione di una legge che metteva a carico dello Stato i rimborsi dei costi di ristrutturazione per valori superiori alla  spesa sostenuta dai proprietari delle abitazioni. E persino la possibilità di cedere ad altri soggetti il credito maturato senza partecipare, anche parzialmente, al pagamento degli oneri relativi.



Una sorta di istigazione a delinquere legalizzata, che solo in parte trova riscontro nei 13 mld di euro di truffe, accertate dalla Guardia di finanza, promosse da parte di committenti, imprese e intermediari finanziari, che hanno richiesto i rimborsi senza nemmeno eseguire le opere. La bolla speculativa che ha investito l’intero complesso della filiera delle costruzioni – dalla progettazione ai costi dei materiali, alle prestazioni delle imprese e dei professionisti e ai costi delle intermediazioni bancarie – si è divorata tutto il potenziale vantaggio per i committenti dei Superbonus rispetto alle precedenti detrazioni fiscali. Che prevedevano un concorso finanziario dei committenti e un conflitto di interessi rispetto ai fornitori, consentendo di calmierare i costi e di raggiungere  gli obiettivi con meno oneri a carico dello Stato. Senza trascurare la pletora degli adempimenti burocratici, di difficile interpretazione, che hanno comportato ritardi nell’esecuzione delle opere e fornito un solido alibi per prolungare nel tempo gli effetti negativi del Superbonus.



Cosa fatta capo ha? Nient’affatto, e lo dimostra l’incredibile girandola di numeri relativi all’impatto degli sgravi e della cessione dei crediti d’imposta sulla spesa pubblica che oscillano dagli 87 mld di euro già maturati sulla base dell’effettiva esecuzione delle opere stimati dall’Enea (l’ente statale incaricato di monitorare l’avanzamento delle autorizzazioni rilasciate), ai 120 mld paventati dall’Agenzia delle entrate, fino ai 150 mld ipotizzati dagli esperti del ministero dell’Economia considerando i lavori in itinere sui condomìni e le abitazioni unifamiliari che dovrebbero essere completati entro la scadenza del 31 dicembre prossimo.

La trappola infernale è rappresentata dalla sostanziale impossibilità di molti committenti e delle imprese di cedere i crediti d’imposta per l’assenza degli intermediari finanziari disposti ad accettarli. Ovvero disponibili a farlo applicando costi di intermediazione semplicemente folli. Secondo l’Ance sarebbero circa 360mila le famiglie e le imprese che si trovano in questa situazione. Un numero abnorme rispetto al volume degli edifici ristrutturati: i 74mila condomìni e le 471mila abitazioni unifamiliari, per un volume di spesa ulteriore già accertata di poco inferiore ai 70 mld e che aumentano ad un ritmo mensile superiore ai 3 mld.

Ora sono in molti a prendere le distanze da quanto avvenuto, salvo i primattori dei 5 Stelle e qualche compagno di avventura politica che continuano ad attribuire al Superbonus il merito di aver favorito i tre quarti della crescita economica registrata negli ultimi due anni sulla base di stime farlocche che non trovano riscontro nelle statistiche ufficiali. Eppure per lungo tempo gli enti di ricerca, in particolare il Censis e Nomisma, finanziati per lo scopo dalle associazioni dei costruttori, e lo stesso Sole 24 Ore, l’organo ufficiale della Confindustria che denuncia lo sperpero, hanno propagandato gli effetti miracolistici del Superbonus: le entrate fiscali e contributive che avrebbero garantito un rientro pari al 70% della spesa sostenuta dallo Stato; un aumento di  350mila posti di lavoro; un risparmio energetico equivalente a circa 1,2 mld di metri cubi di gas e una riduzione di 1,4 milioni di tonnellate di emissioni di CO2.

Finita la propaganda, si tratta adesso di ponderare le conseguenze di diversa natura provocate dal disastro annunciato. La prima, del tutto evidente, sono i costi che devono essere ammortizzati nell’immediato futuro nel bilancio dello Stato. L’ipotesi di diluirli sull’arco di 4-5 anni, in relazione alle rate del rimborso delle detrazioni, comporta  un’ipoteca sulle future leggi di bilancio che dovranno fare i conti con il ripristino dei vincoli del nuovo Patto disabilità europeo. Una prospettiva che il ministro dell’Economia Giorgetti vuole scongiurare, scontando immediatamente il debito accumulato con la legge di bilancio 2024. Una scelta che comporta uno sforamento del deficit in rapporto al Pil superiore al 5% e la sostanziale impossibilità di finanziare gran parte delle promesse in materia di sgravi fiscali, aumenti delle pensioni e degli stipendi della pubblica amministrazione. In ogni caso i conti devono essere fatti con l’oste, nello specifico le istituzioni europee, che non sembrano affatto disponibili ad assecondare una scelta di questo tipo che è destinata ad aumentare in modo consistente il debito pubblico.

La cifra finale dipenderà dall’esito della partita che è aperta tra lo Stato, ovvero i contribuenti, e i 360mila (sempre ammesso che siano veri) titolari dei crediti di imposta incagliati. Utilizzati da una parte delle forze politiche e delle associazioni delle imprese e dei professionisti per ottenere l’ennesima proroga degli incentivi, ma soprattutto per ampliare la possibilità di cedere i crediti d’imposta.

Il danno procurato è destinato a produrre danni durevoli per il settore dell’edilizia residenziale. Relazionati alla perdita di fiducia rispetto agli incentivi fiscali, che rimangono una componente essenziale per le scelte di ristrutturare il patrimonio abitativo, e per l’esaurimento delle risorse finanziarie disponibili.

Per valutare l’impatto negativo deve essere ponderato anche il calo demografico della popolazione, che comporterà una crescita dei livelli di sottoutilizzo delle abitazioni esistenti  (-3% nel 2022 solo per le città capoluogo).

L’obbligo di migliorare e certificare i livelli di risparmio energetico degli edifici residenziali, recentemente approvato dalle istituzioni europee, completa l’opera, con le conseguenze immaginabili sulla svalutazione di milioni di abitazioni.

Uno scenario da tempesta perfetta destinato a condizionare per diversi  anni le prospettive del comparto dell’edilizia residenziale.

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