Il Consiglio dei ministri di giovedì 16 febbraio il Governo ha assunto la decisione drastica di sopprimere la possibilità di cedere i crediti relativi agli incentivi maturati con le ristrutturazioni abitative. Non è la fine del superbonus e dell’insieme delle agevolazioni recentemente riformate con la legge di bilancio 2023, che rimangono formalmente operative. Ma la possibilità di utilizzare le nuove detrazioni fiscali per le nuove ristrutturazioni abitative viene condizionata alla capienza delle dichiarazioni fiscali dei committenti e delle tasse dovute all’erario che, per la stragrande parte dei contribuenti, risultano inferiori rispetto alle rate annuali delle detrazioni maturate.
La decisione del Governo sorprende assai, anche perché una parte consistente delle forze di maggioranza chiedeva a gran voce di ampliare le maglie della cessione dei crediti per rimettere in moto decine di migliaia di cantieri che erano stati aperti sulla base della possibilità dei committenti di cedere i crediti maturati. L’impatto è doloroso, probabilmente ben superiore anche ai calcoli formali sul numero dei potenziali crediti incagliati, per via degli effetti psicologici e pratici che hanno indotto le banche e gli altri intermediari finanziari a rifiutare le nuove domande, anche quelle che formalmente possono ancora utilizzare la cessione dei crediti d’imposta.
Come giustamente sottolineato dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il danno per i contribuenti è stato ancora più elevato, stimabile secondo le stime della Ragioneria dello Stato in circa 2 mila euro pro capite. Gli effetti di trascinamento delle cessioni stanno comportando una revisione del debito pubblico per un importo vicino ai 110 miliardi di euro. Un’autentico sproposito, peraltro del tutto prevedibile per le caratteristiche di un provvedimento che andava assimilato a un’istigazione a delinquere sin dalla sua origine perché metteva a carico dello Stato una spesa persino superiore a quella sostenuta per ogni singola ristrutturazione, togliendo di mezzo i conflitti di interesse tra committenti e fornitori assicurato dalle vecchie detrazioni, e dal contributo virtuoso sul controllo dei costi delle prestazioni derivante dal concorso attivo sulla spesa richiesto ai committenti.
L’esplosione dei prezzi dei materiali, delle forniture in opera e dei servizi aggregati nel settore delle costruzioni è avvenuto in anticipo rispetto a quello dei costi dell’energia. Generando nell’insieme una sorta di tempesta perfetta che ha sostanzialmente azzerato i potenziali vantaggi del superbonus per i committenti rispetto alle vecchie agevolazioni e ridotto quelli relativi ai risparmi energetici in rapporto al capitale pubblico investito. Conseguenze del tutto prevedibili, come abbiamo avuto modo di rappresentare, e a documentare in tempi non sospetti, negli articoli dedicati al provvedimento che rappresenta il punto apicale delle follie populiste applicate all’azione di governo.
Le conseguenze rischiano di essere dolorose. In prima istanza per i committenti e per le imprese rimasti a metà del guado in mancanza di un’apertura formale dei cantieri, avendo programmato i costi dei progetti e delle opere calcolando la possibilità di poter cedere i crediti d’imposta. Altrettante difficoltà incontreranno le imprese e i fornitori che hanno rilasciato sconti sulle fatture eccedenti la rispettiva capienza fiscale disponibile sulla base del presupposto di poter cedere a loro volta i crediti fiscali maturati agli intermediari finanziari. Ma a pagare dazio, in modo paradossale, sono anche i committenti che hanno avviato le ristrutturazioni utilizzando le vecchie agevolazioni che prevedono le detrazioni al 50% o al 65% del montante dei lavori, e che hanno contribuito di tasca propria a pagare una parte degli oneri di ristrutturazioni, che si ritroveranno costretti a rateizzare i crediti fiscali maturati nell’arco dei 10 anni o, nella peggiore delle ipotesi, a dover rinunciare alle detrazioni nel caso risultino superiori alle tasse dovute all’erario.
Sono proprio le conseguenze del clima di incertezza generato dalla bolla speculativa e dalle conseguenze delle drastiche decisioni assunte dal Governo per impedire gli effetti di trascinamento sul debito pubblico (stimate da Giorgetti in 110 miliardi di euro) a destare grandi preoccupazioni negli operatori delle costruzioni che paventano un impatto negativo per decine di migliaia di imprese, per un equivalente di 150 mila lavoratori.
Il bilancio dell’operazione superbonus viene quantificato dell’Enea al 31 gennaio 2023 in 65 miliardi di euro di investimenti e un corrispondente esborso a carico dello stato di 72 miliardi, derivante dalle 372 mila asseverazioni già rilasciate per 51.250 ristrutturazioni condominiali e per 320 mila villette unifamiliari o abitazioni indipendenti.
Il Censis nell’ambito di una indagine commissionata dalla principale associazione dei costruttori sull’impatto dei cantieri già conclusi (equivalenti a un valore di 55 miliardi di euro di investimento pubblico) stima un effetto moltiplicatore pari a 115 miliardi di produzione e un contributo di prestazioni lavorative e di reddito per circa 900 mila persone. Un volume di attività che avrebbe comportato anche una restituzione allo Stato di tasse e contributi previdenziali pari al 70% dell’esborso pubblico. Nell’indagine i benefici per il risparmio energetico vengono quantificati nell’equivalenza di 1,2 miliardi di metri cubi di gas e di una riduzione di 1,4 milioni di tonnellate di emissioni CO2.
Sulla base di questi numeri i sostenitori del superbonus, in particolare quelli che hanno lucrato sui vantaggi politici ed economici dell’intervento, cercano di affermare la bizzarra teoria che più lo Stato spende e più la collettività ci guadagna. Anche se i debiti vengono accollati a tutti i contribuenti per avvantaggiare una ridotta platea di proprietari che non contribuiscono ai costi delle ristrutturazioni e che beneficiano nel contempo della rivalutazione degli immobili e dei risparmi sulle bollette energetiche. Una spesa immensa per migliorare la qualità del 2% del patrimonio abitativo.
Più saggiamente altre associazioni dei datori di lavoro e degli operatori del settore mettono in evidenza che con le medesime risorse, mirate a rafforzare le vecchie e consolidate detrazioni per migliorare la qualità delle abitazioni con il concorso finanziario dei contribuenti, si potevano ottenere risultati più consistenti e più diffusi sul complesso del patrimonio abitativo con una pianificazione degli interventi sul medio e lungo periodo. Risultati che potevano essere ottenuti aumentando il volano degli investimenti pubblici con il concorso di quelli privati e controllando in modo efficace i costi delle ristrutturazioni con il contributo del conflitto di interesse tra committenti e fornitori di opere e di prestazioni. Con tutta probabilità, sulla spinta delle reazioni delle forze politiche e delle associazioni imprenditoriali, qualche correzione sarà apportata al provvedimento per offrire una soluzione alle imprese che si ritrovano con i crediti incagliati.
Ma la strada da intraprendere per il futuro immediato rimane quella di ricostruire le condizioni di certezza e di fiducia per l’intero comparto delle costruzioni, basata sulla pianificazione di un sistema ragionevole e duraturo dei nuovi incentivi per le ristrutturazioni finalizzate a migliorare la qualità del patrimonio abitativo tenendo conto della peculiarità storica che non ha paragoni nel mondo e della contemporanea decrescita della popolazione che sarà chiamata a concorrere ai costi degli interventi.
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