Un gruppo di ricercatori dell’Università di Tor Vergata si prepara a studiare il caso degli “immuni per natura”, soggetti che non si contagiano (nemmeno in forma asintomatica) pur trovandosi a stretto contatto quotidiano o comunque convivendo con un’altra persona risultata invece positiva al Covid. È come se questi soggetti mostrassero un’immunità naturale, una resistenza al virus che potrebbe essere determinata da fattori di tipo genetico. Ed è in particolare su questi fattori che i ricercatori di Tor Vergata vogliono fare chiarezza, analizzando un gruppo di soggetti eleggibili (molte sembrano essere le richieste già pervenute per la partecipazione alla ricerca) al fine di approfondire la questione non solo sul fronte anticorpale, ma anche su quello dell’immunità cellulare, l’immunità che è data dalle cellule memoria del sistema immunitario e che dura anche oltre la vita degli anticorpi. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Pregliasco, ricercatore del Dipartimento di scienze biomediche per la salute dell’Università di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano.
Professore, quanto sono frequenti e quanto sappiamo ad oggi sui soggetti cosiddetti “immuni per natura”?
Si sono viste sin dall’inizio delle variazioni genetiche non ben chiare e credo si tratti ancora di approfondire elementi che conosciamo già, anche per altri virus, e che sono collegati alla diversa capacità del sistema immunitario del soggetto, vuoi per caratteristiche genetiche, vuoi per il momento che il soggetto stesso sta attraversando. Questa capacità è legata anche al rapporto tra il T1 e il T2.
Cioè?
Si tratta del rapporto tra la forza e l’azione della parte “umorale” del sistema immunitario, quindi delle plasma-cellule e poi degli anticorpi prodotti, e la parte invece cellulare, la cosiddetta T2.
E quando parla delle condizioni momentanee che incidono sulla predisposizione a contrarre il virus a cosa si riferisce in particolare?
Un’infezione dipende dalla carica virale ma anche dalle condizioni del soggetto in quel momento, da pregresse infezioni, da vaccinazioni fatte nel breve termine, situazioni che si modificano nel tempo e portano un soggetto a essere più o meno resistente a seconda di quello che gli è capitato prima dell’infezione. Si è visto come infezioni pregresse, anche non legate al Covid, possano dare in un certo periodo una fase finestra di abbassamento delle difese, ma poi successivamente un richiamo, un rinforzo, una specie di vaccinazione aspecifica, dovuta a un’attivazione di tutto il sistema immune.
Come riusciamo a escludere che i soggetti apparentemente immuni per natura non siano stati invece già contagiati molto tempo prima?
Certo, è tutto da capire, magari può essersi trattato di infezioni pregresse asintomatiche non riconosciute, ad esempio nella prima fase della pandemia, in cui eravamo molto meno capaci d’individuare i casi. Ancora adesso ne perdiamo sicuramente una parte, anche se molto più ridotta.
Il sierologico indaga solo la presenza degli anticorpi. Non esistono al momento strumenti diagnostici che testino l’immunità di tipo cellulare?
Quelli che abbiamo oggi sono soltanto test sierologici per la valutazione degli anticorpi IgM e IgG. Credo sarà importante approfondire l’individuazione delle peculiarità e della capacità della risposta cellulare, quella legata ai macrofagi e al sistema dendritico, importante per tantissimi virus, in primis l’Hiv, per il quale viene infatti studiata. Si tratterà di mettere a punto dei test che siano attendibili e significativi rispetto a questo aspetto. Al momento mancano ancora, ma so che ci sono colleghi che ci stanno lavorando.
È giusto vaccinare anche le persone che hanno mostrato un’immunità naturale?
In una vaccinazione di massa diventa un problema andare a fare un distinguo e comunque sappiamo, anche per altre vaccinazioni, che ciò non crea un problema. La trivalente morbillo-rosolia-parotite, ad esempio, da anni viene effettuata sistematicamente a tutti i bimbi, a prescindere, rappresenta un booster che va a rafforzare l’immunità. Per il vaccino Pfizer abbiamo visto, solo nei pochi soggetti che abbiamo vaccinato, che può esserci una fase più significativa di effetti collaterali, ma niente di più.
C’è una predisposizione genetica a contrarre il virus o addirittura a contrarlo in una forma più aggressiva?
Si è ipotizzata in passato una maggiore predisposizione delle donne o in base ai gruppi sanguigni, ma sono ipotesi tuttora non confermate. È possibile che questa predisposizione esista, ci sono certamente dei casi che sembrano evidenziare diverse capacità di risposta dei singoli nel tempo, anche rispetto ad altre infezioni.
Secondo lo stato delle conoscenze attuali, quanto durano gli anticorpi contro il Covid?
Sei mesi.
Per definire la durata dell’immunità data dal vaccino invece è ancora presto?
Sì, questo è ancora da capire e definire, servirà più tempo.
(Emanuela Giacca)