Luca Palamara è stato espulso dall’ordine giudiziario. Tutto qui. Le stesse toghe che prima lo hanno usato, ieri lo hanno condannato. Ma non serve a nulla ricordarlo. Non che non sia vero, ma è già vecchio, non significa più niente per nessuno.
In Italia la memoria ha un costo ritenuto insostenibile. In Italia quelli che fino a ieri inneggiavano alla Repubblica di Salò, quelli che dicevano che Mussolini fece bene a sterminare gli ebrei, oggi sono sindaci, presidenti di Regione, capi di Gabinetto. I generali dei Carabinieri, i prefetti, gli aguzzi ufficiali della Guardia di finanza si affannano a stringer loro le mani.
Quindi, si metta da parte l’indignazione. Si lascino i toni delle invettive sul caso Palamara. Strapparsi le vesti significherebbe partecipare da comparse – previste e gradite – all’orgia italica che tutto confonde: natiche, volti, piedi, ordini e gradi.
Ciò che si deve esigere è invece la verificabilità pubblica delle carte del caso Palamara, i documenti più importanti della storia recente per comprendere come funzioni realmente il più potente dei poteri dello Stato: la magistratura. Le carte Palamara dimostrano che in magistratura si è fatta carriera in larga misura per accozzi e militanza, non per merito, cioè grazie a quegli stessi metodi che ufficialmente l’ordine giudiziario dice di voler contrastare. Queste carte non sono di pubblico dominio. Sono pubblici gli atti della P2, ma non questi.
Il Parlamento italiano, fanciullesco e subordinato, non ha neanche provato a istituire la Commissione d’inchiesta sul caso Palamara. Il motivo è semplice: la magistratura, da sempre, pretende di lavare da sé i suoi panni, in nome della sua indipendenza. È la teoria dell’Omertà di Corpo. In questo modo essa pretende che non si sappia perché Tizio è diventato procuratore al posto di Caio. Pretende che non si discuta pubblicamente il curriculum dei magistrati. Pretende che non si entri nel merito delle tante cantonate prese durante innumerevoli indagini. Pretende che non si indaghi sul rapporto di reciproca copertura che intercorre tra la Polizia giudiziaria e il Pm. Pretende che non si analizzino criticamente i tempi delle indagini, rapidissime per alcuni e lentissime o addirittura inesistenti per altri.
Non basta il teatro della ghigliottina. Non basta: questo bisogna dire ai magistrati. Essi sono ormai circondati da un discredito così esteso che appare rimediabile solo col faticoso percorso della palingenesi, con l’uscita dalle correnti, dagli ideologismi, dalla presunzione etica di superiorità rispetto agli altri ordini dello Stato, dalla foia della lotta alla corruzione degli altri con proporzionale esenzione per quella propria, dagli accozzini, dalle protezioni, dalle ignoranze ignorate in istruttoria e coperte in giudizio.
Non basta la testa di Palamara. Serve la caduta delle maschere; serve poter vedere e curare la rogna che si sviluppa sotto le parrucche incipriate, sotto i cigli inseveriti dal ruolo ma non dalla virtù e dalla cultura. Serve la Giustizia, non il suo teatro.