Il rincaro dei prezzi del gas, e di molte altre materie prime, ha portato a un interessante dibattito sulle misure da adottare per combattere gli effetti che subiranno imprese e famiglie. In tale dibattito si è discusso sia della possibilità di sussidiare le fasce della popolazione più debole, sia di imporre un tetto al prezzo del gas. Sono due soluzioni che, in questo scenario, bisognerebbe considerare con molta prudenza per una ragione semplice: non siamo in una situazione, com’è accaduto negli ultimi decenni, di disponibilità adeguata alla domanda ma di prezzi “insostenibili”. Siamo in uno scenario in cui non è possibile reperire sul mercato, nemmeno pagando cifre esorbitanti, tutta la quantità che serve per soddisfare la domanda. 



Tolto dall’equazione il gas russo, l’Italia non può trovare la stessa quantità di gas in un orizzonte temporale di breve-medio periodo sia per un problema di capacità che di infrastrutture. Lo stesso discorso vale per altre materie prime come, per esempio, il grano o l’olio di semi di girasole che negli ultimi giorni hanno occupato le pagine dei giornali. Anche in questo caso c’è una questione di prezzo e, soprattutto, una questione di offerta inferiore alla domanda.



I sussidi o i tetti ai prezzi di vendita non producono il gas o il grano che manca per soddisfare tutta la domanda. Qualcuno rimane senza. 

C’è un secondo problema: queste “soluzioni”, soprattutto se mantenute nel medio termine, rischiano di creare distorsioni ed effetti collaterali molto difficili da gestire se non viene risolto il problema fondamentale che è quello della quantità. Potremmo sintetizzare dicendo che non si può redistribuire quello che non c’è. Il rischio è quello di avere prezzi bassi, ma scarsità per un lungo periodo di tempo. Più fuori dall’Italia il prezzo aumenta, più gli interventi di sussidio diventano onerosi per lo Stato, più si agisce limitando la quantità per limitare il costo per la collettività. Non è un caso che negli stessi giorni in cui si discute di queste “soluzioni” si parli apertamente di razionamento dei consumi elettrici per diversi anni. Il circolo vizioso che si potrebbe innestare è quello di partire con un razionamento che limita l’elettricità a 23 ore al giorno e finire con uno che la limita, per estremizzare, a 6. Oppure con un sussidio di un chilo di pasta a persona alla settimana e finire a 300 grammi mentre si dà la colpa alla “speculazione”; il tutto condito, magari, da un fiorente mercato nero. Ci perdono quasi tutti e anche i poveri.



Non è chiaro come in uno schema di prezzi calmierati e aliquote extra sugli extra profitti si possano coinvolgere i privati. Prendiamo il caso di un’azienda italiana che opera nell’estrazione del gas: perché dopo dieci anni di prezzi bassi dovrebbe investire, prendendosi i rischi, in una situazione in cui lo Stato limita il prezzo, e magari poi lo limita ulteriormente, dopo aver promesso che comunque non avrà più bisogno del suo gas nel medio termine? L’offerta rimane bassa, i Paesi esportatori non hanno incentivi a firmare contratti di lungo termine con l’Italia e il problema peggiora. Tutto questo è già successo per molti decenni dalla parte “sbagliata” della Cortina di ferro. Si diano, piuttosto, i soldi alle famiglie perché decidano in autonomia cosa comprare e magari incentivare, in questo modo, la produzione nazionale di questo o quel bene innescando un circolo virtuoso. L’idea di uno Stato che controlla l’economia, oltretutto con un approccio ideologico alla transazione energetica, apre scenari preoccupanti. È inevitabile che la “politica” si faccia tentare da soluzioni che, tra le altre cose, trasferiscono potere dal basso all’alto; non è detto però che questo movimento migliori la situazione. Il rischio, semmai, è l’opposto.

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