Un secolo fa John Maynard Keynes nel suo saggio “La fine del laissez-faire” affermava che “il mondo non è governato dall’alto, in modo tale che l’interesse privato e sociale coincidano”. Keynes scriveva che non è una corretta deduzione dei principi dell’economia affermare che l’interesse privato opera sempre nell’interesse pubblico e suggeriva agli economisti di studiare forme di governo democratico che potessero realizzare questo obiettivo, proponendo due esempi:
1) In molti casi la dimensione ideale di organizzazione e controllo si colloca fra l’individuo e lo Stato moderno, con il riconoscimento di organismi semi-autonomi, il cui criterio di azione è il bene pubblico, senza fini privati. La Banca d’Inghilterra, l’Autorità Portuale di Londra, le Università e le imprese di pubblica utilità sono esempi di organizzazioni intermedie, fra lo Stato e le persone, con i loro bisogni essenziali, non soddisfatti dal meccanismo del mercato. L’utilitarismo individualistico è, a certe condizioni, un efficiente meccanismo di coordinamento, ma diventa inadeguato per rispondere a una domanda di pubblica utilità, perché è necessaria la cooperazione e non più solo la “mano invisibile” del coordinamento.
2) Keynes affermava che “molti dei più gravi mali del nostro tempo sono i frutti di rischio, incertezza e ignoranza” a livello personale e per lo stesso motivo il “big business” è spesso una lotteria, da cui originano grandi disuguaglianze; e questi medesimi fattori sono la causa della disoccupazione del lavoro o la delusione di ragionevoli aspettative economiche e il deterioramento dell’efficienza e della produzione. Keynes chiude la sua riflessione sul tema della popolazione e la necessità che tutti i Paesi si dotino di una politica che abbia come obiettivo la dimensione della popolazione.
Nel 1937 Keynes sostiene che in un’epoca di crescita della popolazione gli errori di investimento saranno rapidamente assorbiti e perciò si tenderà a promuovere l’ottimismo degli investitori, e per converso in un’epoca di declino della popolazione gli investimenti saranno più rischiosi. La dimensione della popolazione in Italia è in continua diminuzione soprattutto per i nuovi nati e i giovani in età da lavoro.
Il nuovo Rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, è di particolare interesse perché propone una visione della sussidiarietà molto più vicina alle persone, sulla base delle esperienze di governo a livello territoriale, con un’approfondita analisi su più livelli: storico, economico, giuridico, demografico, comparativo.
Il Rapporto dedica alla popolazione il capitolo 3 sul Trend demografico e i bisogni futuri di welfare, inoltre al capitolo 5 il welfare locale è fotografato nella traiettoria evolutiva della domanda di cura. Il capitolo 6.9 approfondisce i servizi e gli interventi per le famiglie e i minori, il capitolo 6.11 analizza servizi per gli anziani e il 6.12 i servizi e interventi per il contrasto a povertà e disagio degli adulti.
Il capitolo 7 approfondisce l’analisi della spesa per il welfare per il welfare territoriale, per i comuni e per programmi. Il capitolo 8 approfondisce il tema della struttura e dell’attuazione legislativa nei diversi livelli di governo del welfare state verso forme innovative di amministrazione condivisa.
I temi sollevati nel Rapporto sono molteplici e offrono ulteriori spunti: ad esempio il riferimento alla Costituzione apre un tema rilevante con il titolo del capitolo 8.3 “Un livello di governo per ogni diritto sociale?” e “Come ricostruire il sistema partendo dalla persona e dai territori?” (pag. 120) è una domanda che rimanda a un’altra e cioè se esiste un legame fra spesa per il diritto e il suo finanziamento.
Il moderno Terzo settore si colloca in continuità con l’analisi keynesiana, e il principio di sussidiarietà è il fondamento della cooperazione necessaria per rispondere alla necessità di colmare le carenze del meccanismo del mercato.
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