«La parola “italianità” è stata una delle più scritte e pronunciate ormai da diversi mesi. Usata nel senso patriottico, certo non può far a meno di render tronfio chi la usa, ma in realtà è uno specchietto per le allodole». Prendo come spunto questa frase estratta dall’articolato commento di Danilo Loforte sul caso Alitalia/Cai, perché è vero che di “italianita” si parla frequentemente, per esempio ogni volta che una società italiana è in procinto di passare in mani straniere, ma non sono sicuro che se ne parli correttamente.
Il concetto di italianità si sviluppa su piani diversi, ancorchè tra loro intrecciati. Uno è quello patriottico citato da Loforte, che può sembrare sorpassato o addirittura negativo, quasi fosse una deviazione sciovinista. Non credo che un giudizio simile sia corretto, perché gli aspetti economici non sono estranei all’identità nazionale e quindi al senso di appartenenza. Ritengo giustissimo essere orgogliosi della nostra letteratura, della nostra musica, della nostra arte, ma non vedo perché non esserlo anche di altre eccellenze, pur in campi meno “elevati”, come il parmiggiano reggiano (o il grana padano), il design o la Ferrari.
Altri Paesi, Francia in testa, non hanno di queste remore e difendono a spada tratta i loro prodotti e i governi intervengono per bloccare la vendita, non solo di industrie strategiche, ma anche di un’acqua minerale. Pur producendo spumanti che spesso sono superiori ai migliori champagne, noi siamo fortissimi importatori del prodotto francese, mentre i tedeschi provano tenacemente a difendere il loro sekt, nonostante le oggettive differenze di qualità. Lo stesso si potrebbe dire del vino, dei formaggi e di tanti altri prodotti, non solo agricoli.
A questo punto si potrebbe introdurre nella discussione un secondo aspetto, e cioè che è importante cosa, come e dove si produce, non chi è proprietario dell’azienda. Questo può essere vero, ma non lo si può assumere come vero a priori in tutte le circostanze. Infatti, proprio dove vi è un valore aggiunto, e il made in Italy lo è, l’italianità deve essere il più completa possibile. Perché una società produttrice di formaggi, poniamo francese, nella società italiana acquistata dovrebbe limitarsi alla produzione locale e non introdurre i propri prodotti e marchi, anche a scapito dei prodotti italiani? E non necessariamente per patriottismo, peraltro prevedibile, ma per semplice convenienza e razionalizzazione economica. Non per nulla si parla di casa madre.
D’altro canto, si è sempre considerato come intelligente la delocalizzazione delle nostre imprese quando si sono mantenute direzione, progettazione e strategie nel nostro Paese, spostando all’estero le produzioni di serie, spesso riportando i prodotti in Italia per il completamento e la rifinitura.
Inoltre, la proprietà straniera sposta in un altro Stato non solo le decisioni economiche, ma anche quelle politiche, non meno importanti per un’azienda. È quindi probabile che si tenda a privilegiare le direttive del proprio governo, e che per esempio, di fronte alle esigenze di ristrutturazione, si tenda a sacrificare le filiali estere, piuttosto che quelle del paese di origine.
Tutto ciò vale anche per Alitalia. Il termine “compagnia di bandiera” è meno banale di quanto sembri, perché gli aerei sono dei pezzi in movimento di uno Stato, godono di extraterritorialità, e concorrono insieme alle rappresentanze diplomatiche a formarne l’immagine all’estero. Sotto questo aspetto, purtroppo, Alitalia da molti anni non è più uno strumento positivo, perché nella sua conduzione è prevalso un altro significato della parola “italianità”: il prevalere degli interessi particolari su quelli generali, le collusioni tra poteri, politici e sindacali in primo luogo, l’assoluto sprezzo di ogni regola economica, tanto paga Pantalone.
È contro questa perniciosa “italianità” che occorre combattere, ovunque si annidi e, per rimanere nel settore dei trasporti, si potrebbe cominciare dalle Ferrovie dello Stato. Ad esempio, benissimo l’alta velocità, ma perché con costi così sproporzionati, come ben commentato su ilsussidiario.net?
E questo giustifica la situazione spesso disastrosa di tante altre linee “normali”? Senza contare che, come biglietto da visita per gli stranieri che vengono in Italia, le nostre ferrovie sono altrettanto spesso un disastro. E si potrebbe continuare con esempi di tanti altri settori.
È vero, questa parola viene ripetuta molto frequentemente, ma forse senza sapere bene cosa significhi realmente.