Renato Farina, nel suo critico articolo sull’invito di Veltroni a concedere il voto amministrativo agli immigrati, si richiamava al principio liberale per cui “se uno versa le tasse nel posto dove risiede ha diritto di esprimere il voto per scegliere chi amministrerà quei denari.” L’articolo è stato commentato da Marco Voli che, richiamando il concetto di Patria come casa della societas costruita con la fatica di generazioni, invitava a una prudenza ancor maggiore di quella già richiesta da Farina. Concludendo che se il “liberalismo” non voleva tener conto di un sano realismo poteva andare “a farsi friggere come le altre ideologie.”



In effetti, di questi tempi si sentono spesso riferimenti al “no taxation without representation” che fu alla base della rivoluzione da cui nacquero gli Stati Uniti. L’origine di questo principio è nella volontà di limitare l’arbitrio del Principe attraverso il controllo del Parlamento, luogo appunto della rappresentatività. I coloni americani contestavano di essere tassati pur non avendo rappresentanza diretta del Parlamento, anche se sudditi del sovrano inglese. Un problema in un certo senso rovesciato rispetto a quello dell’immigrazione in Italia e che rimanda al vero problema di fondo: una seria discussione attorno al principio di cittadinanza. L’Italia ha finora seguito come regola il principio dello jus sanguinis, vale a dire che è italiano chi nasce da un genitore italiano, consentendo l’acquisizione della cittadinanza al di fuori di questo principio attraverso laboriose procedure di naturalizzazione.



Da più parti si chiede ora l’introduzione anche del principio dello jus soli, secondo il quale diventa cittadino chi nasce in Italia, indipendentemente dalla cittadinanza dei suoi genitori. Questa viene considerata una misura anche per facilitare l’integrazione degli immigrati nella nostra società.

Ora, con lo jus sanguinis viene considerata implicita l’appartenenza alla Patria, con tutto ciò che questo comporta, e questa appartenenza deve essere infatti rinnegata dal cittadino o tolta per imperio dello Stato. Nei processi di naturalizzazione la adesione alla nuova Patria deve essere verificata dall’autorità che attribuisce la cittadinanza, e nella maggioranza dei paesi questo esame è molto serio e approfondito.



Lo jus soli lascia del tutto aperto il problema, l’esempio locale portato da Farina va in questa direzione, e porrebbe problemi non indifferenti sotto il profilo della doppia cittadinanza. Questi casi sarebbero senza dubbio molto numerosi e coinvolgerebbero ordinamenti giuridici anche fortemente diversi dal nostro, rendendo ancor più complicati i già non semplici accordi bilaterali con gli Stati di origine per trovare una comune regolamentazione di queste situazioni. Comprese quelle fiscali di doppia tassazione, che già affliggono molti immigrati regolari e che andrebbero affrontate da subito.

Mi sembra evidente che, liberali o no, si tratta di applicare i principi con la prudenza e il sano realismo invocati da Farina e dal suo commentatore. Non solo, ma su questi problemi che coinvolgono la coesistenza civile di tutta la società e, infine, la stessa identità nazionale, sarebbe bene che vi fosse una discussione comune tra le varie parti politiche, senza strumentali e pericolosi calcoli elettorali. Peraltro, è strumentale il tentativo di isolare il voto amministrativo da questo contesto, come se amministrare una città non implicasse il riferimento a criteri politici, culturali e a un sistema di valori condivisi. Esistono, e sono già state indicate, altre strade per rispondere in modo positivo alle diverse esigenze di chi qui è nato e di chi qui si trova con la volontà di rimanervi come parte non solo di uno Stato, ma di un popolo.