Qualche tempo fa, una visitatrice del nostro sito inserì in un suo commento una citazione di Giovanni Papini, che invitava a chiudere le scuole, perché ritenute «…antigeniali, che non ristupidiscono solamente gli scolari, ma anche i maestri». Daniela Marti, la nostra lettrice, commentava: «Intellettuali e politici, da quasi cento anni, non smettono di giudicare negativamente la scuola italiana. I casi sono due: o la smettono di criticare e fanno proposte concrete o è meglio accogliere l’invito di Papini. Non ne posso più di veder scritto che la scuola non ha un’anima… deve avere persone capaci e strumenti all’avanguardia, altrimenti tra cento anni politici e intellettuali ‘prodotti’ da una scuola disprezzata e povera, scriveranno le stesse banalità!!!».
Non mi preoccuperei degli “intellettuali”, almeno di quelli che credono loro compito solo criticare e non proporre soluzioni, e mi concentrerei sul punto dell’anima, che conduce direttamente al problema della scuola pubblica. Anche sul nostro sito vi sono state decise reazioni contro le scuole private, con relativa esaltazione della scuola pubblica, mettendo così in risalto una mistificazione semantica tipicamente italiana: l’identificazione di pubblico con statale. La scuola di Stato è un’invenzione relativamente recente e determinata dal giusto obiettivo di far diventare educazione ed istruzione un bene a disposizione di tutti, ma è opinabile che sia l’unica soluzione o la migliore, almeno da un punto di vista oggettivo. Lo è, senza dubbio, per quelle concezioni che vedono nello Stato il luogo primario o esclusivo di educazione, in contrapposizione per esempio alla famiglia, e le citazioni potrebbero andare dall’antica Sparta alle comuniste Unione Sovietica e Cina, fino alla tragedia cambogiana. Non è evidentemente questo il caso italiano, ma allora non dovrebbero esserci tutte le opposizioni, che invece ci sono, a porre al centro della questione educativa la famiglia, consentendole una libera scelta in un sistema di scuole pubbliche, gestite o no dallo Stato, cui peraltro dovrebbero rimanere i poteri di indirizzo generale e di controllo. Si potrebbe obiettare che così allo Stato rimarrebbe l’incombenza di istituire e gestire scuole dove i “privati” non arrivano o non hanno convenienza, ma è proprio questo il compito di uno Stato moderno, che voglia essere al servizio dei cittadini e non padrone di sudditi.
A questo dovrebbe servire in primo luogo la fiscalità generale, non a sostenere i costi della politica o, tanto meno, i “servizi” alle varie corporazioni. La concezione dello Stato in base al principio di sussidiarietà non è una concessione a posizioni particolari, è l’unica via perché lo Stato sia veramente democratico e, senza accettare questo punto di partenza, non c’è decentramento o federalismo, fiscale o meno, che possa cambiare la tentazione centralistica dello Stato, o meglio di chi lo gestisce. Il principio di sussidiarietà, insieme a quello di solidarietà, come inteso nella Dottrina Sociale della Chiesa, sono infatti il mezzo per scardinare alla radice la tentazione di potere che sta dietro, ed è insita, nel centralismo, qualunque ne sia la dimensione. È qui che ritorna il punto dell’anima da cui siamo partiti, perché l’anima è propria della persona, non dello Stato, della persona nella sua integrità, non parcellizzata in cittadino, consumatore, politico, insegnante o studente: queste sono funzioni in cui si esplica e attraverso le quali agisce la persona.
E qui si può citare un altro commento, di Silvio Restelli: “ … uno dei punti cruciali per individuare la crisi della scuola oggi: la perdita dell’orizzonte della totalità e della domanda sul suo fondamento che ormai è diventata luogo comune di tutta l’epistemologia contemporanea.” Forse, allora, non è necessario chiudere la scuola, forse basta riportarla alle sue vere fondamenta.