In margine al dibattito sull’ora di islamismo nelle scuole, è arrivato il seguente commento di Giuseppe Cerquini:

“La divina commedia. Immaginare, pensare, credere, che possa esistere un essere tanto assurdo, crudele, malefico e tragico, che avrebbe creato, oltre a tutte le altre malefatte (infinite sofferenze per tutti gli esseri viventi, umani e animali ), una tortura eterna , è una idiozia colossale. Dante che l’ha scritta e Benigni che la declama sono due inconsapevoli terroristi e idioti. A volte, purtroppo, anche eccezionali geni rimangono dipendenti dall’oppio della religione, che gli hanno propinato da quando erano bambini.”



Sia pure con toni da invettiva, Giuseppe Cerquini pone un problema radicale per l’uomo, religioso o sedicente ateo: l’esistenza del male e, di più, la sua coesistenza con un Essere che si presuppone per definizione infinitamente buono. Giuseppe rileva la, almeno apparente, contraddizione e conclude che un tale Essere non può esistere e che è terrorismo il semplice supporlo..



Mi terrò ben lontano dall’aspro e per me proibito terreno teologico, ma la questione è innanzitutto umana e vorrei proporre alcuni punti riferendomi alla mia esperienza personale.

Il primo rilievo è che è facile parlare del male fuori di noi, perché tutto sommato più facile. In fondo, di fronte a un cataclisma naturale, c’è sempre qualche scienziato che ci sa dire per quali cause avviene, qualcuno che suggerisce modi per prevedere questi fenomeni e comunque la tecnica può cercare di limitare i danni (si vedano le polemiche a tal proposito in occasione del recente terremoto in Abruzzo). In altri termini, ci pare di avere la conoscenza, se non il controllo, della situazione e possiamo comunque dare la colpa a qualcosa o a qualcuno al di fuori di noi.



 

Altrettanto facile è accusare il male compiuto da altri, soprattutto se ci tocca da vicino, negli affetti, nella persona, nel patrimonio o nelle nostre idee. Anche qui, possiamo sempre dare la colpa alla cattiveria altrui, o alla società, o alla classe dominante, e via dicendo, e pensare di risolvere il problema punendo i reprobi o cambiando la società. Dalla Rivoluzione francese in poi, di rivoluzione in rivoluzione, violenta o culturale, se ne sono visti di tentativi in questo senso, ma il male ha continuato ad esistere, anche eliminando “l’oppio dei popoli”: la Ragione elevata a divinità ha prodotto il terrore, la nuova pura e perfetta umanità del nazismo ha prodotto Auschwitz, e l’uomo nuovo comunista i gulag sovietici, lo sterminio cambogiano e i laogai cinesi.

 

E il male continua ad essere presente tra noi. No, la verità è che il male continua a essere dentro di noi, ciascuno di noi, in me, e non vi è nessun tribunale o ideologia che possa togliercelo. Ciascuno di noi può scegliere di far finta di niente, di illudersi che ciò che fa è buono, “a prescindere”, e stordirsi, come uno che si ubriaca o che si droga. Oppure possiamo rassegnarci, “sono fatto così, non ci posso fare niente”, adagiandosi in una continua autoassoluzione che, per mantenersi, finisce per diventare astratta o violenta negazione della realtà. Il male che abbiamo dentro può anche diventare insopportabile e portare alla disperazione, o al cinismo, o a costruirci un’ideologia che ci giustifichi, o infine a odiare noi stessi.

 

“Credo in un dio crudel, che m’ha creato simile a sé e che nell’ira io nomo. … Son scellerato perché son uomo; e sento il fango originario in me. Sì! Questa è la mia fé!… E poi? E poi? La Morte è il Nulla. È vecchia fola il Ciel.” Queste affermazioni nominalmente blasfeme del Credo dell’Otello nascondono tutto il rimpianto disperato dell’uomo che non riesce a dimenticare né a perdonare il suo male ed è costretto a rinnegare se stesso insieme a quel Dio che non riesce a riconoscere.

 

 

L’uomo, noi, non riusciamo a erigere il male, neppure il nostro male, a giustificazione ultima del nostro esistere, abbiamo bisogno di un Altro, magari da bestemmiare come fa Jago, ma a cui rimettere finalmente il nostro male. Ben diverse le ultime parole di Faust con cui sfugge a Mefistofele venuto a pretendere la sua anima secondo lo scellerato patto: “ Vieni, Ideal! vien, Morte! Santo attimo fuggente, arrestati, sei bello! A me l’eternità!” Sarà un caso, ma gli artisti, geni o no che siano, nella loro ricerca di bellezza, di superamento della realtà bruta, nella loro ricerca dell’ideale, non possono non confrontarsi con questo Essere che racchiude in sé bellezza, amore, ideale, infinito, eternità: l’assoluto, la perfezione che ogni artista, ogni uomo, ricerca, da sempre.

 

Il cristianesimo ha portato nel mondo ciò che non consente più di chiamare “vecchia fola” la speranza nell’infinito e nell’eternità: Dio si è fatto uomo, è morto e risorto, e ha così sconfitto la morte. L’uomo non è più identificato dal male che compie, anche il male ultimo, “ la derisione della morte e poi del nulla” per dirla con Jago, è vinto, l’attimo fuggente si arresta è diventa eterno.

 

Sia Jago che Faust sono arbitri del loro destino, entrambi fanno uso della libertà che caratterizza l’uomo, quella libertà il cui cattivo uso è alla fonte della presenza del male nel mondo, ma quella stessa libertà che consente alla finitezza dell’uomo di incontrarsi nell’infinito di Dio. Un’idiozia colossale che contrasta con la mia ragione? La coscienza del male che posso, che so compiere, che compio, e la lucidità della mia ragione che impietosamente mi mette di fronte al mio limite, mi convincono che credere di poter confidare solo in me stesso è un’idiozia ancor più grande, non solo, è la negazione stessa della ragione.