Non sono un esperto di educazione, se non come padre di quattro figli, né di scuola, se non per aver accompagnato per lunghi anni i miei quattro figli in quelle famigerate scuole private ( io le chiamavo libere), della cui gestione si occupavano i genitori che volevano, molti, e gli insegnanti, tutti, ciascuno nel rispetto dei ruoli e delle competenze, ma senza soluzione di continuità tra la gestione economica, organizzativa e didattica. Ho quindi qualche difficoltà a seguire la vasta discussione sulla scuola che si sta sviluppando su ilsussidiario,net, ma mi hanno colpito molti commenti di lettori e qui ne cito alcuni.
Claudia Mazzola, credo non sia un’insegnante, scrive: “Oggi non so come è la scuola, ai miei tempi si stava bene, come a casa. Ricordo la mia maestra elementare Annamaria, ci ha cresciuti e accolti come una mamma…” Già, sembra un po’ una roba da “libro Cuore”, ma più o meno tutti quelli non giovanissimi si ricordano dalla loro maestra, magari non con l’affetto di Claudia. Mi chiedo se ora questo atteggiamento sia altrettanto diffuso e, in caso negativo, se la colpa sia solo delle maestre. Penso che vi sia responsabilità anche della famiglia e, più ampiamente, della società, divenute entrambe incapaci di far sentire ai bambini la continuità casa-scuola di cui parla Claudia.
È questo il punto focale del commento di Luisa Tavecchia, un’insegnante, che scrive: “…diciamoci la verità. Il governo non ha un progetto di insieme scuola – famiglia – società. La famiglia è un soggetto sociale, e anche economico. Ma la famiglia è diventata una perfetta sconosciuta nella legge finanziaria di questo Governo. Bambini parcheggiati, mamme trafelate, poi dobbiamo ricorrere agli psicologi, alle ass-sociali. etc . …” Non vi è un progetto di insieme che consideri in un continuo scuola, famiglia, società e anche un governo come l’attuale, che pure dice di porre la famiglia al centro delle sue politiche, in realtà riesce a far poco in favore di essa.
La mia impressione è che, nonostante le ripetute riforme attuate dai vari governi, di destra e di sinistra, non si sia riusciti a raggiungere una cultura comune dell’educazione e ci si sia concentrati soprattutto su problemi strutturali e tecnici, perdendo di vista l’obiettivo finale, anche per il permanere di posizioni ideologiche e di interessi corporativi. Non solo non sembrerebbe essere chiaro cosa significhi educare, ma neppure perché lo si dovrebbe fare.
La cartina di tornasole si ha nel mondo del lavoro, dove si continua a toccare con mano lo scollamento con la scuola a tutti i livelli, compresa l’università. E la si ha anche nell’aggravarsi dell’antinomia tra istruzione e lavoro manuale, prova ne siano i problemi che incontra l’istruzione professionale, qualunque sia il governo, con ritorni negativi in termini occupazionali. Si pensi alle difficoltà di reperimento di mano d’opera specializzata delle Pmi e dell’artigianato.
Ed ecco l’ultimo commento che vorrei citare: “Certo uno sguardo così al mattino servirebbe per tutti, anche per chi come me va al lavoro in ufficio… e non è che per applicarlo bisogna prima risolvere tutte le magagne dell’azienda… per lo meno sta meglio chi lo usa, questo sguardo…poi i miglioramenti del mondo non sono in mano di nessun singolo…” Caterina Gianuizzi, che non penso sia un’insegnante, ha ragione. Senza lo sguardo di simpatia totale di cui parla Gianni Mereghetti nel suo articolo, uno non solo non entrerebbe in classe, ma neppure in ufficio, a meno di anestetizzare se stesso, ma è questo sguardo che permette a ciascuno di noi di partecipare al cambiamento del mondo.