Il dibattito sui cosiddetti “bamboccioni” continua a imperversare, grazie anche a sortite propagandistiche, e ridicole, come quelle di Brunetta, che li vorrebbe cacciar fuori casa per legge. D’altra parte il termine era stato coniato un paio di anni fa da un altro ministro, Padoa Schioppa, nell’annunciare sgravi fiscali sugli affitti per “mandare fuori di casa i bamboccioni.”



Anche sul nostro quotidiano vi sono stati interventi e commenti in proposito e sembrerebbe predominare un atteggiamento critico verso chi rimane in famiglia passati i venti anni. Le cause indicate sono di tipo economico, il lavoro precario, gli affitti troppo alti, etc., ma la colpa viene attribuita anche a genitori troppo attaccati ai loro figli ( il solito “mammismo” degli italiani ) e ai figli timorosi di assumersi rischi e responsabilità.



Questa discussione mi lascia onestamente perplesso, non solo per un certo psicologismo e sociologismo che mi mettono subito in allarme, ma anche perché mi pare che il giudizio andrebbe articolato e non generalizzato. Credo, infatti, che dietro i dati statistici, di per sé forse anomali rispetto ad altri Paesi, vi siano situazioni molto diverse e che richiedono soluzioni diverse.

Un problema reale è quello di chi vorrebbe uscire di casa per sposarsi, ma non ci riesce per le ragioni economiche anzidette: definire costoro “ bamboccioni” è inutilmente offensivo, soprattutto da parte di ministri corresponsabili in quanto tali della mancata soluzione del problema. Problema che può essere risolto solo ponendo la famiglia al centro della filosofia e della strategia di governo, quindi delle politiche abitative, fiscali, del lavoro e del welfare. Sotto questo profilo è da denunciare la latitanza dei governi di ogni colore, fin dai tempi della dominanza politica della Democrazia Cristiana, la cui insipienza a tal proposito rischia di cancellare i pur indiscutibili meriti su altri fronti.



In questo caso, prendersela con figli e genitori è decisamente fuori luogo, anzi dovrebbero essere loro a prendersela con la classe politica e anche con un certo modo predatorio di concepire l’economia e, non ultimo, con una “cultura” che considera la famiglia un relitto del passato segno della arretratezza di un’Italia condizionata dal cattolicesimo.

Secondo costoro sarebbero felici i Paesi liberi da questa schiavitù, in cui i figli a sedici anni se ne vanno di casa, assistiti da Stato e enti locali in un modo da noi impensabile. Però, poi parli con amici inglesi e ti dicono che buona parte dei loro problemi derivano dallo scarso senso della famiglia e dall’assenza di quel tessuto connettivo di tutta la nazione che essa rappresenta. Per di più i nodi stanno venendo al pettine, come fa notare Alessandro Giudici nel suo commento all’articolo di Volontè, perché l’attuale crisi sta mettendo a dura prova il sistema di sovvenzioni e prestiti d’onore e molti giovani stanno rientrando nella famiglia di origine.

Sarebbe comunque opportuno esaminare meglio le varie tipologie di coloro che rimangono presso la famiglia d’origine pur non avendo intenzione di sposarsi. Forse nelle statistiche è compreso anche chi, pur risultando residente presso la famiglia, passa la maggior parte dell’anno in un’altra città per frequentare l’università, o per lavori non stabili, magari abitando in un appartamento con altri studenti, o con altri lavoratori altrettanto precari.

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Inoltre, sarebbe anche opportuno togliere dall’elenco i figli non in grado di vivere da soli per problemi fisici o psichici. Si tratta di casi non di certo marginali, spesso abbandonati a se stessi e che emergono solo per fatti di cronaca nera. Così come, soprattutto fra le donne, c’è chi rimane in casa per aiutare i genitori, anziani o ammalati, sacrificando la propria libertà per il loro bene. Invece di emanare proclami sui “bamboccioni”, non sarebbe meglio che i nostri politici si dessero da fare per aiutare concretamente queste famiglie?

 

Infine, vi è chi rimane in famiglia perché non trova ragioni valide per andarsene. Tra questi vi sono senza dubbio i “bamboccioni” a pieno titolo, decisi a non assumersi responsabilità e a sfruttare i genitori, e i loro genitori “mammoni”. Tuttavia, vi sono anche quelli che ne fanno una questione economica, si potrebbe dire di economia di scala, cosa non sorprendente dato che si definisce la famiglia come la primaria “impresa”economica. E io non sono così categoricamente sicuro che condividere le spese della gestione di una casa con amici o con colleghi di lavoro sia comunque un fattore imprescindibile di crescita, mentre condividerle con i propri genitori sia un male da sradicare.

 

Ieri sul Giornale, Claudio Risé affermava di ritrovarsi nel suo studio di psicanalista questi “bamboccioni” tra i quaranta e i cinquant’anni. Mi chiedo però quale sia la causa e quale l’effetto: costoro vanno dallo psicanalista perché rimasti in casa fino a tarda età, o forse proprio i loro problemi psichici non li hanno fatti andar via? Mi sembra più rilevante quanto fatto notare da un altro lettore, Vincenzo Fedele, e cioè che in una concezione di famiglia, recentemente diffusa, in cui non vi sono più ruoli parentali e filiali perché tutti sono “amici”, non vi è più la necessità di dimostrare il proprio valore alla generazione precedente e, quindi, neppure il bisogno di staccarsene.

 

Allora, l’attenzione dovrebbe essere riportata su cosa intendiamo per famiglia, su quali sono i diritti e i doveri dei componenti, quali le responsabilità reciproche, e quali diritti, doveri e responsabilità delle entità pubbliche. Discorso tutt’altro che scontato in una società in cui sempre più saltano i naturali rapporti, non solo tra genitori e figli, ma anche tra le età, con gli anziani che si atteggiano a giovani fino ai limiti del ridicolo e con cronache giornalistiche dove si rimane ragazzi anche oltre i trent’anni, e tra i sessi, con i tentativi di eliminare i generi per passare ai gender (cioè da due ad almeno cinque) e perfino di evitare di parlare di padre e madre, sostituendoli con genitore A e B.

 

Allora, prima di parlare dei “bamboccioni” sarebbe bene parlare, a fondo e seriamente, della famiglia.