L’articolo di Manuela Cervi “Nove lingue a 9 anni? La scuola del futuro può cominciare subito” ha suscitato due commenti in un certo senso opposti. D’altro canto, l’articolo conteneva diverse provocazioni, fin dal titolo.

Il primo commento, positivo, è di Andrea Moro che considera l’articolo “equilibratissimo”, tutt’altro che provocatorio. Andrea è professore ordinario di Linguistica Generale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università “Vita – Salute”del San Raffaele di Milano, parla quindi da esperto dei processi cognitivi e in particolare del linguaggio.



Ciò che trova particolarmente d’accordo Moro è che la pedagogia non può essere un percorso dettato solo da algoritmi neuropsicologici o, in altri termini, che non si può prescindere dagli aspetti antropologici : come scrive Manuela Cervi “tra i fini educativi vi è non lo sviluppo del cervello, ma l’uso della ragione o il pensiero, in connessione alle altre principali facoltà antropologiche, quali il sentire, che deve diventare capacità relazionale, e la libertà, che deve diventare capacità decisionale.”



A tal proposito, Andrea Moro sottolinea che “ il compito di chi educa non si esaurisce nel raggiungere la consapevolezza che il tuo allievo è in grado di scalare una montagna, bisogna metterlo nelle condizioni di desiderare di farlo e di decidere se farlo.”

Gianluca Selmi, invece, si dichiara in completo disaccordo in base alla sua esperienza di padre di cinque figli. In particolare, Gianluca non condivide affatto l’esempio portato di Mozart, che se costretto a pascolar pecorelle non avrebbe mai desiderato comporre il Requiem. “Il bene dei nostri figli non è che compongano il Requiem, ma che vivano bene il reale che gli è dato da vivere.”, dice Gianluca, che mai si sognerebbe di far imparare la matematica a un figlio di tre mesi.



Francamente, mi sembra che le posizioni siano molto meno opposte di quanto appaiano. In modo apparentemente provocatorio, l’articolo ci dice che il reale che è dato vivere agli uomini fin da piccoli è più grande di quanto pensiamo, e non è definito dallo sviluppo neurologico del cervello: desiderio, pensiero, ragione, sentire, capacità relazionale, libertà e capacità decisionale. Sono tutte cose che è impossibile non vedere nei bambini, in nuce , certo, in sviluppo, certo.

La citazione del Requiem viene da Andrea Moro posta nell’area dell’eccellenza, definita come “l’espressione della nostra capacità di stimolare nel giusto contesto le capacità che ci son date.” Questa definizione non mi sembra così lontana dall’auspicio di Gianluca che ”vivano bene il reale che gli è dato da vivere.”

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Gianluca Selmi pone però anche un’altra questione e cioè che non ritrova nella sua esperienza di padre i tre ultimi punti citati nell’articolo, in cui si definiscono falsi luoghi comuni le descrizioni dei bambini che imparano troppo presto come bambini infelici, antipatici, annoiati e, soprattutto, privati della loro infanzia.

 

Senza dubbio, questo è lo stereotipo del “genio precoce” e Gianluca ha ragione nel chiedere prove che la realtà sia diversa. La Cervi sembra convinta che sia così e le sue argomentazioni, non prove, suonano convincenti. Il problema è forse proprio l’aspetto provocatorio citato all’inizio e che porta a pensare subito a qualcosa di straordinario, appunto il genio precoce, mentre mi pare che l’Autrice indichi solo la possibilità di un apprendimento precoce sì, ma non rispetto alle nostre capacità naturali, ma a ciò che i neuropsicologi pensano, i programmi ministeriali prescrivono, i docenti immaginano e i genitori desiderano.

 

Già, i genitori. Chi scrive ha quattro figli e quattro nipoti, tutti diversi tra loro e tutti con modelli e percorsi di apprendimento differenti, ciascuno con proprie “genialità”. Come a Gianluca, anche a me non interessa se qualcuno di loro scriverà un Requiem, né ho imposto a nessuno di loro di imparare a leggere a un anno. Ma non potrei mai perdonarmi di averglielo impedito solo perché non rispondeva ai miei programmi, ai miei desideri o alle mie paure.