La recente visita del Colonnello Gheddafi ha destato anche sul nostro quotidiano diversi articoli e commenti critici. Eppure dovremmo avere ormai imparato che il Colonnello, come tutti i dittatori, ha bisogno di dare spettacolo, non importa quanto grottesco o ridicolo. A noi sembrano ora buffonesche le pose di Mussolini durante i suoi discorsi, ma le folle di Piazza Venezia lo acclamavano, come quelle di Berlino applaudivano la forsennata oratoria di Hitler e sulla Piazza Rossa (e non solo) ci si beava dei plumbei rituali dei successori di Stalin.



Gheddafi non è né l’unico dittatore rimasto, né l’unico a dar spettacolo, anzi occorre riconoscergli un notevole senso del palcoscenico, da far invidia a molti nostri showmen, a partire dall’ineffabile Santoro con il suo “Bella ciao”. Bisogna dire, per onestà, che anche Berlusconi ha un notevole senso dello spettacolo e forse per questo ha finito per sottovalutare le esibizioni del Colonnello.



L’istrionismo di Gheddafi ha però uno scopo ben preciso, quello di presentarsi alle masse musulmane, come un Vero Credente che si erge a difensore e promotore dell’islam. Detestato dagli altri governanti arabi, non è riuscito a portare avanti nessuno dei suoi progetti di egemonia sul mondo arabo, mentre il suo cospicuo sostegno al terrorismo di ogni tipo ha avuto come risultato solo una lunga serie di innocenti morti, compresa una sua figlia adottiva di 15 mesi nel bombardamento della sua residenza da parte di aerei americani del 1986, cui seguì il lancio di due missili libici contro Lampedusa, per fortuna senza conseguenze.



Il Gheddafi di oggi sembra quasi un folcloristico dittatore, con la fortuna di sedere su un mare di petrolio, di avere quindi notevoli capitali da investire (vedi il caso Unicredit di questi giorni) e di poter offrire consistenti affari. Avendo in mano armi più potenti dei missili di un tempo, cioè il ricatto petrolifero e la minaccia di riversare masse di poveretti dall’Africa in Europa, primariamente in Italia.

Non sembra quindi molto proponibile chiudere i rapporti con costui, anche perché uno sciame di aziende della nostra cara Europa sono già pronte a sostituire quelle italiane. E sarebbe illogico opporre rifiuti alla Libia, per poi correre a fare affari con preclari esempi di democrazia come Cina o Russia, o di tolleranza religiosa come Arabia Saudita o Turchia.

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Tuttavia, gli affari si possono anche stringere nel riserbo di un ufficio con una stretta di mano (e visto il personaggio, con contratti blindati), senza coreografie pubbliche, senza baci e abbracci. Una tendenza questa del Cavaliere già ampiamente criticata in altre occasioni. Giuste quindi le critiche di Colognesi, Farina, Parsi e Sbai e dei lettori che hanno commentato gli articoli: costretti a convivere con costoro e a fare affari con loro, non rinunciamo a dichiarare il nostro disaccordo con le continue violazioni di diritti e libertà nei loro Paesi e il nostro rifiuto a essere insultati a casa nostra.. Ma per questo ci vorrebbero politici che avessero a cuore la storia e l’identità del nostro popolo e fossero disposti a difenderle.

 

Non credo che un atteggiamento più fermo metterebbe a serio rischio i nostri affari, perché la rottura costerebbe parecchio anche a costoro. L’ormai indissolubile interdipendenza delle economie, così come l’inizio di maggior benessere sperimentato dalle popolazioni di questi Paesi costringe i loro governi ad aprirsi al resto del mondo. L’esempio catastrofico della Corea del Nord è di monito, come lo sono le sommosse in molte aree della Cina di fronte al rischio di un ritorno al passato.

 

In seguito al plateale invito alla conversione all’islam rivolto da Gheddafi all‘Europa, le critiche si sono concentrate sul problema della libertà religiosa, la cui negazione non è certo prerogativa libica. Anzi, la stessa sfrontatezza del Colonnello e le sue iniziative da venditore porta a porta hanno tolto serietà ai suoi programmi di proselitismo, e negli articoli citati si identificano i veri e consistenti pericoli che, se l’Europa avesse coscienza di se stessa, dovrebbe prepararsi seriamente a fronteggiare.

 

Interessante sotto questo profilo il commento di Giuseppe Zola: “All’università, studiando diritto internazionale, mi fu insegnato dai grandi maestri di allora che uno dei principi fondamentali nei rapporti tra Stati era quello delle reciprocità. Mi pare che tale principio sia stato totalmente dimenticato.” Infatti, ed è stato dimenticato non solo per paura, insipienza o questioni petrolifere, come ipotizza Zola, ma per un malinteso senso di tolleranza, non so quanto genuino. La tesi, sostenuta anche da molti cattolici, è che cadremmo in contraddizione con i nostri principi se, per rispettare la libertà di religione degli altri, chiedessimo per reciprocità il rispetto della nostra.

 

 

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Il principio di reciprocità vale tra Stati, non tra istituzioni religiose. Qui è la difficoltà perché l’islam non riconosce la distinzione: in questo senso, Gheddafi si è comportato da perfetto capo di Stato, islamico. Saremmo noi nell’errore, pretendendo di tenere distinte istituzionalmente le due sfere.

 

Rimane comunque indigeribile che in Arabia Saudita , “terra santa” perché ospita la Kaaba, non si possa costruire neppure una cappella, mentre a Roma, che ospita la Santa Sede, si è potuto costruire la più grande moschea di Europa, finanziata proprio dalla Arabia Saudita, con terreno donato nel 1974 dal Consiglio comunale di Roma e posa della prima pietra alla solenne presenza di Pertini. Tolleranza o suicida arroganza anticattolica?

 

Zola cita anche l’ultimo esempio di tale “tolleranza”, l’approvazione di Obama alla costruzione di una moschea a due passi da Ground Zero. Come quella di Roma, anche questa non sarà un semplice luogo di preghiera, ma un grande centro culturale e, inevitabilmente, di propaganda islamica. I sostenitori del progetto affermano che sarà una possibilità di riconciliazione e di rafforzamento dell’islam moderato, oltre che un doveroso riconoscimento del diritto dei musulmani a esercitare le loro pratiche religiose.

 

Eppure, varrebbe la pena che i sostenitori della moschea si ponessero alcune domande, per esempio perché proprio ora si senta il bisogno di una così imponente costruzione e proprio a Ground Zero? Forse perché l’anno prossimo è il decimo anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle? L’islam dà molta importanza ai simboli e all’occupazione del territorio: una terra che è stata una volta islamica lo rimane per sempre.

 

L’11 settembre ha definitivamente trasformato gli Stati Uniti in Dar al-Harb, la “dimora della guerra”, come lo è già da secoli l’Europa, e forse Ground Zero è diventato Dar al-Islam, grazie ai “martiri” che si sono sacrificati nell’abbattimento delle Torri. La moschea suggellerebbe questo ideale possesso anche da un punto di vista religioso. Quello di New York potrebbe essere un esperimento da riprodurre altrove e mi riprometto quindi di tornare sull’argomento in un prossimo intervento.

 

Per chiudere, vorrei invece ricordare a Gheddafi che i suoi sforzi si riveleranno vani, perché, come ci è stato promesso, le porte dell’inferno non prevarranno.