Il 2022 è stato per le borse mondiali l’anno peggiore dal 2008, un anno di perdite colossali con cui il sistema bancario adesso si trova a fare i conti. Parliamo della questione delle “perdite non realizzate” che riguarda le possibili perdite del portafoglio obbligazionario, titoli che formalmente non vengono venduti fino alla loro scadenza e che quindi non influiscono sugli utili.
Il problema, però, emerge quando a fronte delle ingenti perdite del sistema bancario – orientativamente stimate 620 miliardi di dollari – e dall’aumento dei tassi interesse imposto dalla Fed cresce il bisogno di liquidità e quindi la necessità di vendere. Ed è questo il caso della Silicon Valley Bank che è stata travolta della corsa agli sportelli.
Al netto dei tecnicismi e dei sofismi con cui si è provato a differenziare la crisi della Silicon Valley Bank (SVB) da quella della Credit Suisse, i due casi hanno molto in comune. Credit Suisse, sebbene interessata da una lunga lista di scandali, era un banca molto attrattiva per un numero relativamente basso di clienti molto facoltosi in cerca di alti rendimenti, che ha dovuto fare i conti con un repentino e ingente ritiro di depositi. Esattamente come la Silicon Valley Bank, anche la seconda banca svizzera quando si è posto il problema di reperire liquidità ha dovuto rivolgersi al mercato delle obbligazioni. Fed e Banca nazionale svizzera hanno deciso di intervenire nello stesso modo, ovvero favorendo la ricapitalizzazione e acquisendo le obbligazioni in portafoglio, interventi il cui costo ricadrà sulle spalle contribuenti.
In entrambi i casi, per la maggior parte degli analisti, i management sono ritenuti la causa principale delle crisi poiché ritenuti colpevoli di un’inefficace valutazione del rischio e di errori significativi nei rendiconti finanziari, ma questo tipo di spiegazione rischia di far passare in secondo piano la strutturale fragilità del sistema bancario che deve fare i conti con la combinazione pericolosa di una repentina compressione della liquidità e di una complessiva crisi di fiducia. Un contesto caratterizzato da una radicale incertezza che fa temere per un effetto dominio in stile 2008.
Non è possibile prefigurare gli scenari futuri, ma forse riflettendo sulle conseguenze su scala globale di questa inaspettata e veloce crisi è possibile valutarne la portata. Benché dopo il fallimento della SVB è concreto il rischio che molte start-up innovative e buona parte del settore tech rimangano senza finanziamenti è impensabile che un settore così strategico perda di valore o che torni indietro nel tempo quando le start-up non avevano un canale preferenziale con le banche. Anzi, la posizione della SVB che da sola dominava l’intero settore tech fa gola a molti.
La velocità con la quale HSBC ha acquistato la divisone britannica della Silicon Valley Bank, fa pensare che tutte le grandi banche di Wall Street vorranno intervenire direttamente nel settore rivolgendosi direttamente alle start-up e agli investitori del settore tech. Altrettanto rapida sembra essere l’acquisizione di Credit Suisse da parte di Ubs. I pesci più grandi, mangiano i più piccoli, verrebbe da dire, peccato però che i pesci grandi sono sempre più grandi e quelli che hanno la peggio non sono così piccoli poiché grazie alla pandemia hanno visto i loro depositi crescere in modo considerevole.
Il colosso elvetico è il crocevia di interessi di varia natura ed è stato la porta di accesso al salotto della grande finanza per soggetti reputazione non del tutto immacolata. A riguardo, è da valutare bene la posizione della Saudi National Bank, il primo azionista della banca svizzera, che rischia di avere la peggio in questa situazione e che al momento non sembra essere intenzionata a immettere ulteriore liquidità. Inoltre, sul piano geo-economico le conseguenze del fallimento della SVB e delle difficoltà di Credit Suisse possono essere rilevanti. In entrambi i casi il protagonismo della finanza anglo-americana fa pensare che i grandi colossi si siano mossi in tempo per ridurre i rischi, “sterilizzando” i pericoli connessi alle attività di istituti stranieri e acquisendone gli asset strategici.
l danno per l’industria tecnologica del fallimento della SVB potrebbe interessare di più le imprese tecnologiche cinesi piuttosto che quelle americane, poiché finanziava direttamente e velocemente tante start-up cinesi garantendone un rapporto diretto con gli investitori Usa. Con un’economia che cresce sempre più lentamente – si prevede del 5% nel 2023 – potrebbe avere seri problemi per finanziare le sue imprese più innovative, se non rafforzando ancora di più il controllo del partito sul settore tech.
Forse è presto per capire se il settore finanziario stia per essere interessato da a una nuova e forte centralizzazione del mercato dei capitali, ma sembra evidente che la ristrutturazione dell’industria finanziaria vada di pari passo con quella dell’industria tecnologica, un processo che ha come veri protagonisti i colossi della finanza anglo-americana.
Ancora una volta, grazie all’ennesimo shock globale potrebbe rafforzarsi un sistema che in qualche modo riesce a giovarsi delle sue criticità interne.
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