Contrordine compagni: il contratto a termine non è più la fonte della bieca precarietà, ma la miniera di nuove opportunità occupazionali degne di essere incentivate in ogni modo. Ci voleva la pandemia a mettere fine all’accumulo di stupidaggini che sono state raccontate sul mercato del lavoro nel Paese dell’Ue che, insieme alla Grecia, ha il numero minore di occupati in rapporto alla popolazione in età di lavoro, e la più elevata quota di lavoro sommerso, ma che si prende il lusso di valutare il tasso di precarietà sulla base del numero dei contratti a termine.



Al mancato rinnovo dei contratti a termine e stagionali si deve infatti quasi il 45% del calo occupazionale registrato dall’Istat per il mese di febbraio 2021 rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. E sarebbe stata la totalità se tra i 945 mila occupati in meno, tra i quali 355 mila lavoratori autonomi, l’Istituto di statistica non avesse considerato circa 350 mila cassaintegrati da oltre tre mesi in ottemperanza ai nuovi criteri di classificazione adottati in ambito europeo. Abbiamo persino scoperto che la perdita dei contratti a termine  è  coincisa con quella dell’occupazione delle donne  e dei  giovani.



Questa nuova valutazione rende evidente anche il potenziale degli occupati assistiti dalla combinazione  dell’utilizzo della cassa integrazione e del  blocco dei licenziamenti in buona parte destinati a tornare nel mercato del lavoro o, per i più  fortunati, a essere accompagnati verso una pensione anticipata. Sulla prospettiva di una ripresa dei contratti a termine, vaccini permettendo, si fonda la potenziale ripresa dei livelli occupazionali, soprattutto nei settori dei servizi, che per caratteristiche di andamenti della domanda, di stagionalità e di modalità organizzative delle imprese utilizzano la quota maggiore di queste tipologie di rapporti di lavoro.



Meno di tre anni fa veniva varato un decreto, che hanno avuto il coraggio di chiamare “dignità”, che introduceva tutta una serie di vincoli per l’utilizzo dei contratti a termine: causali, limitazione per i rinnovi, aumento dei costi del lavoro, che hanno prodotto l’ infelice esito di impedire il rinnovo dei contratti a termine in essere, salvo destinare l’ennesima barcata di incentivi per favorire le trasformazioni in contratti a tempo indeterminato, che venivano puntualmente dismessi una volta esauriti i benefici. Per questa ossessione di contrastare rapporti di lavoro regolari, e del tutto necessari per le organizzazioni produttive dei servizi – tanto che in molti settori come come il turismo, la ristorazione, i servizi alle persone, le pulizie, la logistica, i tassi di mobilità lavorativa sono elevatissimi anche per i contratti a tempo indeterminato -, negli ultimi 5 anni, sono stati spesi oltre 40 miliardi di incentivi, senza modificare sostanzialmente le tendenze di medio e lungo periodo nell’insieme del mercato del lavoro. Infatti, il recupero di circa un milione di occupati persi nel corso della precedente crisi è  avvenuto tutto con i contratti a termine a part-time.

Il contrordine compagni è una cosa seria: adesso si parla addirittura di ridurre i costi del lavoro sui contratti a termine e di rendere strutturale l’eliminazione delle causali introdotte dai paladini della dignità attualmente sospese per la crisi Covid. Addirittura di poterli rinnovare fino ai 36 mesi previsti prima dell’avvento del decreto dignità. In pratica abbiamo scherzato per 20 lunghi anni, con un susseguirsi di riforme e controriforme che hanno fatto impazzire imprese e parti sociali, e generato un clima di incertezze permanenti.

È auspicabile che la lezione sia bastata, ma eviterei di mettere la mano sul fuoco. Infatti, continuano a sopravvivere i totem che hanno alimentato la stagione delle riforme in contromano: l’illusione che basti fare un decreto per piegare i comportamenti delle imprese e delle persone; la sottovalutazione dei processi strutturali che caratterizzano le evoluzioni dei mercati del lavoro; l’assoluta assenza di politiche finalizzate a migliorare la qualità dei processi organizzativi e le competenze dei lavoratori.  Infatti, è  già  ripresa la solita tiritera sulla necessità di una nuova riforma per ampliare i sostegni al reddito, che sarà puntualmente utilizzata per rendere strutturali i provvedimenti una tantum e i relativi fabbisogni di spesa assistenziale. Molte idee circolano in materia, che alla fine convergono su una in particolare: che bisogna dare un reddito a tutti, avendo pure la pretesa di convincere l’opinione pubblica che a colpi di redditi di cittadinanza e di emergenza le persone saranno stimolate a cercare un nuovo lavoro.

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