La Camera dei rappresentanti e il Consiglio di Stato, di nuovo a confronto. Questa volta al Cairo, sotto l’egida della Lega Araba. Il processo di unificazione della Libia continua così: dopo il summit di Tunisi, le due più importanti istituzioni dell’Est e dell’Ovest, con sede a Tobruk e a Tripoli, si sono ritrovate per proseguire il percorso che dovrebbe portare all’individuazione di un governo di transizione che conduca il Paese a nuove elezioni, riunendolo così sotto un esecutivo democraticamente eletto che guidi una nazione non più divisa tra la Tripolitania di Amid Mohammed Dbeibah e la Cirenaica di Khalifa Haftar.



Le resistenze non mancano, spiega Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e di InsideOver, a partire dallo stesso Dbeibah, capo del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, che intanto, a scanso di equivoci, starebbe già preparando la campagna elettorale con sussidi e provvedimenti per accaparrarsi le simpatie degli elettori. Ma incombe anche la Russia, contraria all’unificazione per paura di dover rinunciare alla presenza della ex Wagner e a una base navale nel Mediterraneo. Un contesto in cui l’Italia deve muoversi con attenzione: ha accordi per 8 miliardi con Dbeibah per lo sfruttamento dell’energia, ma deve fare attenzione a non sbilanciarsi troppo nei suoi confronti. Tra poco al suo posto potrebbero esserci altri interlocutori, magari non così ben disposti a rispettare gli interessi dell’Italia acquisiti sul campo.



Cosa significa il nuovo incontro in Egitto? Stavolta si fa veramente sul serio per la riunificazione della Libia?

Il dialogo procede e questa è già una notizia. L’incontro di Tunisi non è stato un caso isolato, ma ha aperto la strada a un confronto più approfondito. A cosa stia portando è difficile dirlo, ma è già importante che ci sia. In Libia di solito, quando si aprono tavoli, si chiudono subito dopo. Qui non è così.

Da chi vengono le resistenze maggiori a questo processo?

In questa fase, le maggiori resistenze sono da parte del governo di Tripoli: se le due Camere si mettono d’accordo, è chiaro che toglierebbero linfa a Dbeibah. Anzi, l’attuale premier così rischierebbe di fare già parte della storia. Scelto come leader di transizione, vorrebbe rimanere. È stato anche redarguito dalla Banca Centrale Libica, che ha notato un aumento della spesa dei fondi derivanti dagli introiti del petrolio. Il sospetto è che stia spendendo molti soldi per allargare la sua base elettorale. La stessa dinamica che si verifica in molti governi, anche in Occidente, in periodo di elezioni: spuntano sussidi e finanziamenti per rabbonire questa o quella categoria.



Vuol dire che ha già cominciato la campagna elettorale?

Esatto. Cerca di avere una base elettorale più ampia possibile. Ha la volontà di rimanere e anche i soldi per farlo: è un imprenditore di Misurata che fa affari con la Turchia da prima di assumere un ruolo politico. Una persona che ha molti agganci e quindi gli strumenti per rimanere in sella. Non si risparmierà per rimanere a galla in questa fase e, se uscirà temporaneamente di scena, proverà a ricandidarsi.

Chi ha sostenuto e nominato Dbeibah come guida del governo?

È stato nominato dal cosiddetto 6+6, il consiglio degli esperti che include rappresentanti dell’Est e dell’Ovest della Libia, incaricato dall’ONU di scegliere il leader del Consiglio Presidenziale e il capo del governo dopo le dimissioni di Al Sarraj. Doveva rimanere in carica fino al dicembre 2022, quando si sarebbe dovuto votare. Le elezioni non si sono tenute ed è rimasto.

Camera dei rappresentanti e Consiglio di Stato dovrebbero dar vita a un governo unico che traghetti la Libia alle elezioni. Ci sono dei nomi considerati papabili per questa carica?

È prematuro parlare di nomi, anche perché trovare una persona che coalizza il consenso non è facile. Il nuovo governo non potrà essere guidato da Dbeibah, che viene visto più come un elemento di rottura che di unione. In Libia i nomi di solito escono dal nulla all’ultimo momento. Nessuno si aspettava l’arrivo dell’attuale premier quando è stato indicato. Probabile che si proceda così anche ora, con qualche indicazione a sorpresa.

Il confronto fra le due istituzioni di Tripolitania e Cirenaica ci è stato presentato come un’iniziativa tutta libica, senza ingerenze esterne. I Paesi che hanno interessi in Libia stanno a guardare o cominciano già a mettere il naso nel processo di unificazione?

I Paesi che hanno un ruolo nel quadro libico ora hanno altri problemi. È una fase in cui i libici possono provare a organizzarsi da soli. Questo non vuole dire che non ci siano interessi internazionali. Anzi. Si sta giocando una partita importante fra USA e Russia: i primi vorrebbero un programma di unificazione del Paese, la seconda invece è alleata di Haftar e le converrebbe una Libia più spaccata per mantenere i soldati della ex Wagner e impiantare una base navale fra Bengasi e Derna. In questo momento comunque, Mosca e Washington sono impegnate su altri fronti, come Ucraina e Israele. Un contesto in cui è pensabile un percorso tutto libico e non piani sponsorizzati dall’ONU o da altre potenze.

Anche l’inserimento della Lega Araba deve essere letto in questo modo? Gli altri Paesi sono in tutt’altre faccende affaccendati e lasciano spazio all’organizzazione?

La Lega Araba prova a mettere il suo zampino e, se lo fa, è perché si sente di poterlo fare. Vale lo stesso discorso fatto per i libici. È un po’ come dire: “Adesso che gli altri sono distratti, proviamo a organizzarci fra noi”.

C’è un’idea di come mettere insieme le due anime della Libia? Come sta puntando i piedi Dbeibah, lo farà anche Haftar: come si farà a tenere conto delle esigenze di entrambi?

Tutto sta nel mettere d’accordo le parti nella ripartizione dei fondi del petrolio. Con l’oro nero libico si fanno ancora molti soldi, ma i proventi non si sa bene come vengono gestiti, c’è molta poca trasparenza, visto che manca di fatto uno Stato. Il trait d’union può essere rappresentato dalla promessa che la ripartizione dei fondi sia più equa.

Che insidie contiene questo momento di transizione per l’Italia e per i suoi interessi?

L’Italia ha interesse a vedere una Libia stabile, sia per il petrolio che per l’immigrazione. Dalla nostra abbiamo rapporti molto solidi con Dbeibah: lo scorso anno la Meloni ha siglato a Tripoli un accordo da 8 miliardi di euro per infrastrutture relative al gas e nuovi impianti offshore al largo della Tripolitania. Bisogna muoversi con attenzione: risultare come Paese più vicino a un premier che si vuole defenestrare potrebbe essere controproducente, chi ci sarà dopo di lui potrebbe vedere nell’Italia una nazione che ha preferito difendere Dbeibah piuttosto che assecondare le nuove proposte provenienti da Tripoli. Il rischio è che cadano degli accordi senza la possibilità di riscriverli.

Si è parlato anche di unire le forze militari delle due regioni in cui sostanzialmente è diviso ora il Paese per controllare meglio i confini. Un altro segno che il tentativo di riunificare è serio?

È un segnale che c’è la volontà di parlare, perché unificare le istituzioni senza unificare l’esercito vorrebbe dire tornare al punto di partenza. È bene che si parli anche di forze armate uniche.

(Paolo Rossetti)

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