La lingua che parliamo può essere come un abito o come una maschera. Può vestirci e aiutarci ad orientare nel mondo, ma anche camuffarci o camuffare l’altro, nascondere o nasconderci dalle insidie. Synonymes, il film che ha vinto l’Orso d’oro all’ultima Berlinale, prende la lingua, le sue parole, le sue sfumature come punto di partenza di un racconto imprevedibile e di un film imprevedibile.



Diretto da Navid Lapid, regista israeliano al quarto lungometraggio e tra i più promettenti autori mediorientali, il film racconta di Yoav, un ragazzo appena arrivato a Parigi da Israele, che vuole diventare francese, parlare francese e rompere tutti i contatti con la propria terra d’origine, in cui era soldato. A partire dalla lingua, l’israeliano che non vuole parlare mai più. Ad accoglierlo una coppia di aspiranti artisti borghesi, ma il percorso di Yoav in quel mondo opposto al suo scatenerà reazioni travolgenti.



Scritto col padre Haim, Synonymes ha la struttura di una commedia francese post-Nouvelle vague, fatta di dialoghi, parole, girotondi amorosi lungo i contorni cittadini (Éric Rohmer o visti gli spigoli del racconto, Jean Eustache) che l’irruzione di questo personaggio tutto al presente, apparentemente senza passato e forse senza futuro, scuote ed elettrifica immettendo dentro umori tipici dell’umorismo mediorientale, come il palestinese Elia Suleiman, ma anche una forza fisica, un’energia elettrica che porta il film in territori inesplorati e ingestibili.

Synonymes è un film orale, non solo nel senso di molto parlato, ma perché è costruito per racconti, per aneddoti, per storie che si susseguono o si compongono in strati, che dicono qualcosa dei personaggi e del mondo in cui vivono: le parole sono l’ossessione di Yoav nell’imparare la lingua, perché crede che possederla in ogni sua sfumatura sia possedere il suo destino. Ma il destino è una forza incomprimibile, come l’energia fisica di Yoav (sorprendente l’esordio di Tom Mercier) che non si può reprimere.



Così il film diventa anche fisico, attraversato dal corpo inesausto del ragazzo che scuote chi lo circonda, che vuole pacificarsi, ma che invece ha bisogno di far esplodere i suoi movimenti (come nel bellissimo inizio dentro l’appartamento vuoto, con lui nudo) e le sue articolazioni che ricordano la danza contemporanea. Le parole, il corpo e i gesti e la musica, altro veicolo energetico del film di Lapid, per raccontare i conflitti e i contrasti tra culture, mondi, ma soprattutto tra le persone, i loro sentimenti e i loro bisogni carnali o intellettuali.

Lapid si lascia trascinare, non vuole gestire il racconto, né tantomeno intellettualizzarne i temi e così Synonymes può apparire al primo sguardo un film vitale ma scombinato. Eppure questa sua indeterminatezza è lo spaccato migliore di ciò che sta raccontando, ossia generazioni che lottano per esprimersi, per usare i linguaggi al fine di essere qualcuno in un mondo che ha deciso di non ascoltare quelle parole: ragazzi o giovani adulti che non sanno chi sono e dove sono, in cerca di una spinta propulsiva. Un film decisivo di quest’epoca, probabilmente.

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