Si è parlato molto in questi giorni su tutti i giornali (e non solo) della recente sentenza (depositata il 6 dicembre scorso) emessa dalla Corte Costituzionale che è destinata a diventare una pietra miliare in tema di finanziamento della sanità del nostro Paese. Di cosa si tratta?
A seguito di un ricorso formulato dalla Regione Campania su alcuni aspetti del bilancio di previsione dello Stato la Corte Costituzionale ha emesso la sentenza n. 195/2024 per quanto riguarda il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 527 e 557, della legge 30 dicembre 2023, n. 213 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026) ed in questa sentenza vengono proposte alcune considerazioni che (non solo a parere di chi scrive) lasceranno un segno fondamentale in tema di finanziamento del servizio sanitario nazionale.
Lasciamo ai giuristi una valutazione dei tanti aspetti tecnici di merito del pronunciamento (di cui è stato relatore il giudice Luca Antonini) e prendiamo atto di cosa afferma nella sostanza la Corte per quanto riguarda le conseguenze sul finanziamento della sanità, e per non sbagliare è bene partire da ciò che viene affermato dall’Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale nel Comunicato del 6 dicembre 2024 dal titolo “Devono essere prioritariamente ridotte le altre spese indistinte, prima di sacrificare quella per la sanità”.
La Corte dice che “In un contesto di risorse scarse, per fare fronte a esigenze di contenimento della spesa pubblica dettate anche da vincoli euro unitari, devono essere prioritariamente ridotte le altre spese indistinte, rispetto a quella che si connota come funzionale a garantire il ‘fondamentale’ diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che chiama in causa imprescindibili esigenze di tutela anche delle fasce più deboli della popolazione, non in grado di accedere alla spesa sostenuta direttamente dal cittadino, cosiddetta out of pocket”. Cosa significa in termini pratici questo pronunciamento? Lo si può capire mettendo insieme diverse affermazioni che la Corte propone nella citata sentenza, come le seguenti.
In un inciso della pronuncia, parlando della spesa sanitaria la Corte osserva criticamente che essa è “già, peraltro, in grave sofferenza per l’effetto, come si è visto, delle precedenti stagioni di arditi tagli lineari” ed afferma che “nemmeno nel caso in cui la regione non abbia versato la propria quota del contributo alla finanza pubblica, lo Stato può rispondere tagliando risorse destinate alla spesa costituzionalmente necessaria, tra cui quella sanitaria … dovendo quindi agire su altri versanti che non rivestono il medesimo carattere”: il diritto alla salute, infatti, “coinvolgendo primarie esigenze della persona umana”, non può essere sacrificato “fintanto che esistono risorse che il decisore politico ha la disponibilità di utilizzare per altri impieghi che non rivestono la medesima priorità”.
Si afferma in questo modo innanzitutto un’obiezione molto critica alle modalità con cui in precedenza si è agito per determinare il finanziamento della sanità adottando, dice la Corte con un linguaggio decisamente suggestivo, “arditi tagli lineari”, ma d’altra parte la Corte non si limita alla critica e fornisce in positivo una prospettiva di finanziamento per il settore sanitario che cambia completamente gli approcci seguiti in precedenza: per stabilire le risorse da dedicare alla sanità prima di procedere attraverso eventuali tagli o compressione di spese per questo settore occorre agire sulle risorse che il decisore politico ha a disposizione e che sono indirizzate verso altri impieghi che non hanno la stessa priorità della sanità.
La Corte non fornisce esempi di cosa (o quali) siano le “altre spese indistinte” a cui il decisore politico può accedere senza intaccare quelle dedicate alla sanità, però sollecita “il legislatore, al fine di “scongiurare l’adozione di tagli al buio”, ad “acquisire adeguati elementi istruttori sulla sostenibilità dell’importo del contributo da parte degli enti ai quali viene richiesto” e a non trascurare, per garantire maggiore effettività al principio di leale collaborazione, il coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica”.
È vero che la Corte non indica esplicitamente a quali “altre spese indistinte” si debba fare riferimento e rimanda il compito della loro individuazione al decisore politico attraverso la acquisizione di “adeguati elementi istruttori sulla sostenibilità”, ma l’affermazione sta a significare che la Corte costituzionale, per quanto non citate direttamente, ritiene che siano presenti nel bilancio dello Stato spese che non hanno la stessa priorità della spesa sanitaria e che pertanto potrebbero essere compresse al fine di riconoscere priorità alla spesa sanitaria.
Non è competenza di chi scrive l’individuazione di tali spese indistinte, ma non sfugge nemmeno alla “casalinga di Voghera” che il pensiero possa andare (almeno esemplificativamente) ai tantissimi miliardi messi in gioco da precedenti governi in tema di “diversi tipi di bonus per il rifacimento di facciate e altro” grazie ai quali moltissimi cittadini hanno sistemato le proprie abitazioni a spese dello Stato.
Nei confronti di una indicazione così nuova e netta era ovvio attendersi le reazioni della politica, reazioni che naturalmente si sono subito presentate, e giusto per darne l’idea ne segnaliamo un paio. La prima viene dalla senatrice del Pd Beatrice Lorenzin, ex ministro della Sanità, secondo la quale la Corte costituzionale “richiama tutti a una riflessione: la sanità non è solo una voce di bilancio, ma un pilastro della coesione sociale. Tagliarla significa mettere a rischio la sostenibilità futura del sistema Paese”. Commento per lo meno curioso, se si considera che l’ex ministro della Sanità fa proprio parte di quelle “precedenti stagioni di arditi tagli lineari” che la Corte costituzionale ha lamentato.
Un secondo tipo di reazioni è venuto da coloro che hanno voluto vedere nella pronuncia della Corte una critica alle attività dell’attuale governo (Italia Viva, senatrice Daniela Sbrollini, per la quale siamo davanti “non solo a una bocciatura della manovra dello scorso anno, ma anche a un monito al governo per quella in discussione alla Camera”; per il M5s la Corte Costituzionale ha inflitto al governo Meloni “una decisa bocciatura che suona come un vero e proprio sonoro schiaffone”): a prescindere da cosa pensi la Corte dell’attuale governo, è evidente che da una parte le critiche alle “precedenti stagioni di arditi tagli lineari” cui la sentenza fa riferimento non possono certo essere attribuite al governo Meloni bensì vanno ai governi (plurale) che l’hanno preceduto (ed è quindi a loro che andrebbero eventualmente indirizzati la “decisa bocciatura” ed il “sonoro schiaffone” reclamati dal M5s), e dall’altra data la loro rilevanza è logico attendersi che le nuove indicazioni formulate dalla Corte trovino applicazione nelle prossime manovre dell’attuale Governo.
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