Uno diceva: c’è il Covid non ne usciremo uguali a quando siamo entrati. Sottintendendo: saremo migliori, più seri, più partecipi.
Tre anni dopo un altro soggetto dai medesimi pulpiti televisivi proclama, con identica seriosità, che c’è la guerra alle porte, un pazzo sta minacciando bombe nucleari come se piovesse e nel frattempo, tra un’invasione di una nazione e l’altra si diletta di stragi e stupri di gruppo. E il tale dopo aver discettato con salti perigliosi tra congiuntivi disseminati qua e là e consecutio dal traballante equilibrio, conclude anch’egli con sommo sprezzo della logica che “Vivaddio, dobbiamo essere seri: non possiamo non essere seri”. Sì, dobbiamo essere seri. Ce lo diciamo, un po’ moralisticamente, anche noi. Solo che mentre ce lo diciamo ci scappa da ridere: la situazione ci sembra troppo drammatica per essere seria. O almeno seria come la intendono lorsignori.
Ma non è di questo che vogliamo parlarvi oggi, mica siamo ideologicamente sgarruppati come la Bianchina (povero Enrico: chissà che ne penserebbe di certe uscite filiali, lui che si beccò una scomunica moscovita perché sotto la Nato si sentiva meno minacciato che all’ombra dei carri sovietici!) o la Lillina (e qui siamo al mistero: ci crederà davvero in quel che fa dire ai suoi ospiti o ormai si è rassegnata al ruolo che in certe post-cene trimalcioniche viene assegnato ai grappini?).
Vogliamo invece riflettere su un terzo soggetto, incidentalmente Presidente pro-tempore di Confindustria, il quale ha proclamato urbi et sordi: “Tagliamo le tasse ai lavoratori più poveri; duecento eurini in busta paga una tantum non bastano; voglio mettergliene almeno 1200 all’anno in più”. Spettacolare: poi, per adeguarsi all’andazzo generale però aggiunge: “Tagliamo il cuneo fiscale, ai lavoratori facciamo pagare un terzo in più dei contributi e così siamo a posto”. Cioè: siamo a posto noi aziende. Per i lavoratori, par di capire, non cambia poi molto; ma Bonomi, perché di lui si tratta, è convintissimo del contrario. E gli crediamo: sarà pure poco simpatico, sarà pure un duro, almeno secondo i moderni canoni del politically correct, ma dal suo punto di vista ha ragione e chi siamo noi per pretendere che le sue idee non siano il toccasana del Paese?
Certo i soldi del Pnrr sono stati per tante imprese un’occasione unica e la straordinaria furbata del 110% inventato dai Cinquestelle con cui abbiamo pagato alcune ristrutturazioni delle case degli italiani e arricchito molto di più chi fabbrica materiali edili ormai versa in coma. Mica poi gli sono bastate, a Bonomi, le sovvenzioni e le iniezioni che Draghi, tutto meno che un anti-industriale, ha messo sul tappeto. Vorrebbe di più. Logico, normale, non è un fatto che colpisca.
Ciò che colpisce invece è un altro passaggio di quell’intervista in cui Bonomi ha assestato colpi a destra e a manca: il Presidente di una parte degli imprenditori si lamenta del silenzio nel quale la sua proposta è caduta. Pare deplorare che nessuno se lo sia filato, che insomma non si sia aperto un grande dibattito nazionale sulle sue visioni.
E qui in effetti lo scusiamo: nella sua prospettiva le grandi riforme di cui ha bisogno il Paese si riassumono in un paragrafo solo di una legge monoarticolata: “Le aziende pagheranno meno tasse”. I sindacati hanno sostanzialmente taciuto, è vero, ma i politici pure. C’è da chiedersi allora: perché? Disinteressati: non è possibile, né il tema è di quelli su cui il dissenso è enorme. Allora?
Siamo abbastanza certi che per tutti obiettivo della polemica mensile di Bonomi non sia stato il presidente Draghi, né i partiti e nemmeno la questione del cuneo fiscale, la cui evocazione più vecchia di quel che Bonomi con qualche furbizia vuol far credere, copra in verità un altro problema. E cioè che il Governo è entrato in una fase in cui i proclami riformistici devono fare i conti con la seria resistenza dei gruppi e gruppetti di deputati e senatori. Abbassare le tasse o cominciare a sostenere le famiglie?
Il dibattito in passato fu formulato differentemente, ma neppure troppo: meglio la gallina oggi o l’uovo domani? Tagliare il cuneo fiscale consentirebbe certo ai lavoratori di avere più soldi in busta paga, ma ci lascia perplessi l’idea, che emerge nell’intervista di Bonomi, che le aziende pagano troppi soldi ai fondi per finanziare la Cig, la Cassa integrazione. Troppi soldi, dice il Presidente di Confindustria, rispetto a quanto poi tornato sul territorio. Mah, anzi maheggio: chiunque abbia anche solo una vaga idea di quanto avvenuto negli ultimi anni ha la chiara percezione che tra Cig ordinaria, straordinaria, eccezionale, una tantum, due tantum ecc. ecc., molti siano stati i finanziamenti finiti alle aziende. Sovente e soprattutto anzi a quelle non erano solo decotte, ma che al confronto lo stracotto sembrava carne cruda.
Insomma: Bonomi lancia il macigno, e un macigno dal tonnellaggio assai imponente, per tornare in fondo solo a bussare a quattrini. Lo fa sollevando un tema serio e in questo contrasto tra la gravità del mezzo usato e la leggerezza del fine, ci scusi, ci è sembrato troppo simile a quei due di cui abbiamo parlato in alto: vogliamo essere seri, ma non riusciamo a capire che la serietà non corrisponde a un artificio dialettico o a qualche boutade linguistica, quanto invece all’assumere uno sguardo totalizzante sull’uomo e sulle sue vere esigenze. Sistemare le aziende ha un senso se ai lavoratori si lascia qualche minuscolo beneficio? Non si pretende di avere le braciole, ma nemmeno che a essi si riservino solo le briciole.
Si vuole affrontare con i sindacati il tema delle imposte e del cuneo fiscale? Benissimo: ma si cominci allora dal mettere, tutti, ogni parte in causa anche i balbettanti sindacati di questi tempi grami, sul tappeto quanto si è disposti a spendere in favore del bene comune. Assaltare la diligenza è uno sport cui diciamo che i politici si dedicano in occasione dell’approvazione della legge annuale di bilancio dello Stato. Certe interviste sembrano però fatte apposte per convincerci di quel che, a torto certo, da sempre andiamo predicando e cioè che in fondo i politici siano solo lo specchio dell’italiano medio.
Torniamo allora all’inizio. Sommessamente ci si chiede: saremo noi poco seri o non capiamo proprio di cosa stiano parlando questi signori? Poi ci ripensiamo e ci rispondiamo: sì lo capiamo, ma non lo intendiamo. E concludiamo in tutta fermezza che: se anche lo intendessimo ci suonerebbe così bizzarro da non volerlo comprendere.
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