Pochi giorni fa è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto del Presidente della Repubblica di indizione del referendum popolare sulle modifiche costituzionali in tema di riduzione del numero dei parlamentari. È l’atto che ha stabilito, come noto, che si voti al riguardo il prossimo 29 marzo.

Senza entrare nel merito della riforma, si vuole qui segnalare un aspetto del decreto che suscita qualche dubbio dal punto di vista giuridico.



L’articolo 138 della Costituzione non qualifica questo tipo di referendum, limitandosi a precisare che le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda i soggetti legittimati (e sempre che la legge non sia stata approvata nella seconda votazione di ciascuna Camera a maggioranza, oltre che assoluta, di due terzi dei componenti).



Su che tipo di referendum si tratti la dottrina costituzionalistica ha molto dibattuto, ma il suo carattere facoltativo e solo eventuale ne fa, come generalmente si ritiene, non tanto un momento di integrazione della volontà del Parlamento, quanto di contrapposizione ad essa. Da qui la sua natura, per così dire, “oppositiva”.

Oltre che in Costituzione, nessuna qualificazione del referendum si ricava nemmeno nella legge 25 maggio 1970 n. 352, la quale ha provveduto all’attuazione dei vari tipi di referendum previsti dalla Carta.

Se questo è il dato normativo, suscita qualche dubbio leggere sulla Gazzetta ufficiale numero 23 del 29 gennaio 2020 il decreto del Presidente della Repubblica di “Indizione del referendum popolare confermativo della legge costituzionale, recante: ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’, approvata dal Parlamento”. L’elemento di dubbio è proprio in quel “confermativo”, che si rinviene, oltre che nel titolo, anche nel contenuto del decreto, il quale recita: “È indetto il referendum popolare confermativo avente il seguente quesito: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – Serie generale – n. 240 del 12 ottobre 2019?»”.



Ci si può domandare, infatti, da dove tragga legittimazione l’inserimento nel decreto di una qualificazione del referendum non prevista dalla normativa e, nel merito, tale da insinuare una direzione opposta (“confermativo”) rispetto al carattere normalmente riconosciuto ad esso (“oppositivo”).

Il referendum previsto per il prossimo 29 marzo è, come noto, il quarto di questo tipo nella storia repubblicana, dopo quelli del 2001, del 2006 e del 2016. Se non la risposta alla domanda circa la legittimazione, almeno la spiegazione può allora derivare andando a ritroso nei decreti di indizione emanati nelle precedenti occasioni. Il decreto immediatamente precedente in ordine di tempo (G.U. numero 227 del 28 settembre 2016) qualificava, infatti, il referendum come “confermativo” sia nel titolo sia nel contenuto. Quello del 2006 (G.U. numero 100 del 2 maggio 2006) qualificava come “confermativo” il referendum nel titolo del provvedimento, ma non nel contenuto. Analogamente al primo della serie (G.U. numero 181 del 6 agosto 2001).

In sintesi, nelle quattro occasioni di applicazione dell’istituto è possibile riscontrare che nel titolo dei decreti (Capo dello Stato Ciampi, con Berlusconi Presidente del Consiglio, nei primi due casi; Mattarella, con Renzi Presidente del Consiglio, nel terzo; ancora Mattarella, con Conte, nel caso attuale) sempre si fa riferimento al carattere “confermativo” del referendum, senza una base normativa legittimante. Negli ultimi due casi tale carattere è addirittura nel contenuto normativo del decreto, ciò che non può che aumentare i dubbi al riguardo.

Ci si potrebbe domandare se sia legittimo e corretto che una fonte subordinata (il decreto) integri la fonte superiore (la legge) in misura così significativa.

Certo, si potrebbe obiettare, almeno quanto al titolo, che la prassi è stata in tal senso fin dall’inizio, e che non risulta siano stati sollevati dubbi di opportunità o legittimità. Si potrebbe dire che è un’osservazione formalistica, dal momento che la qualificazione incriminata, anche quando si estende al contenuto del decreto, non tocca il testo in senso stretto del quesito.

Ma tutto ciò è conforme rispetto a un quadro normativo che in nessun punto fa riferimento a una qualificazione del referendum di questo tipo?

L’articolo 15 della legge n. 352/1970 è interamente dedicato al decreto di indizione, e in esso il termine referendum compare o senza aggettivi o sotto forma di “referendum costituzionali”, per l’ipotesi in cui se ne debbano svolgere più d’uno di quel tipo contemporaneamente. Vi è, in verità, l’articolo 16 che stabilisce la formula del quesito da sottoporre agli elettori nei termini di “Approvate il testo della legge di revisione …”, ma si tratta di una previsione non priva di qualche ambiguità (tant’è che prosegue chiedendo di “approvare” ciò che è già stato “approvato” dal Parlamento), che avrebbe semmai dovuto condurre all’inserimento del termine “approvativo”, anziché “confermativo”, al referendum in questione.

Il dubbio, dunque, resta e riguarda l’integrazione in sé, indipendentemente, per così dire, dal verso. Nel merito, che essa compia una scelta a favore di una interpretazione della natura del referendum discutibile e in qualche misura contraria a quella generalmente riconosciuta, costituisce poi una circostanza decisamente inopportuna.

L’espressione di voto dell’elettore potrebbe essere, in qualche misura, condizionata da un atto normativo che ne insinua, non è chiaro a che titolo, la natura di adempimento di carattere confermativo, quando la Costituzione l’ha semmai prevista in funzione di possibile contrapposizione alla volontà espressa dal Parlamento.

Si dirà, con i più, che l’esito del referendum pare sostanzialmente scontato, e che i cittadini non saranno certamente condizionati dalla presenza di quell’espressione. Ma il rispetto della legge va garantito ad ogni livello e osservato con scrupolo in tutti gli atti dei pubblici poteri. A maggior ragione quando si tratta di esprimersi sulla nostra Costituzione.