Già nelle scorse settimane non era difficile prefigurare che l’ingorgo politico-istituzionale di questo periodo, tra referendum di vario tipo e appuntamenti elettorali, avrebbe potuto riservare sorprese. Così come era possibile intuire che, in un quadro di debolezza della politica, si sarebbe dovuto confidare sull’apporto di razionalizzazione delle istituzioni di garanzia.
Ciò che risultava più difficile immaginare era il picco di schizofrenia cui avremmo assistito in queste ore, alla vigilia della pronuncia di ammissibilità sul referendum abrogativo e all’approssimarsi della scadenza dei tre mesi per la presentazione della richiesta di referendum sul testo di revisione costituzionale riguardante la riduzione del numero dei parlamentari.
Per quest’ultimo, in particolare, al singolare posizionamento delle forze politiche durante i quattro passaggi parlamentari, in dipendenza del cambiamento della maggioranza a sostegno del Conte 2 rispetto al primo Governo Conte, si è infatti aggiunta la vicenda delle firme di senatori necessarie a formulare la richiesta di referendum.
La soglia di 64 che sembrava certa a fine anno è scesa a seguito dello sfilarsi di alcuni, proprio nell’imminenza del deposito in Cassazione, poi però all’ultimo rimpiazzati da parlamentari appartenenti a schieramenti anche apertamente favorevoli alla riforma, in un’ottica verosimilmente strumentale rispetto all’ammissibilità del referendum – questa volta quello abrogativo – su cui la Corte costituzionale si appresta a giudicare.
Un’operazione, dunque, che passa attraverso lo svolgimento del referendum costituzionale per modificare, con il referendum abrogativo, la legge elettorale in senso maggioritario (a fronte del disegno, su cui sembrano ora convergere le forze di maggioranza, di una riforma di tipo proporzionale, con un’alta soglia di sbarramento). Sfruttando anche l’art. 3 della legge n. 51/2019, approvata nella scorsa primavera per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari, il quale prevede che “qualora, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sia promulgata una legge costituzionale che modifica il numero dei componenti delle Camere … il Governo è delegato ad adottare un decreto legislativo per la determinazione dei collegi”. Decreto da adottarsi entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della riforma costituzionale.
Se a questo si aggiunge che l’eventuale riduzione del numero dei parlamentari si applicherebbe a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della legge di revisione costituzionale, e comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni da essa, ce n’è abbastanza per cogliere il potente tasso di strumentalità che può guidare le scelte contingenti delle varie forze politiche.
La vera domanda che viene da porsi è se questo sia un effetto in qualche modo casuale della sempre minore capacità dei partiti di tenere distinti gli obiettivi della politica istituzionale dagli strumenti della politica contingente o non piuttosto l’effetto voluto di una strategia che innalza la conquista del consenso immediato al di sopra di ogni e qualunque remora nei confronti del rispetto degli equilibri dell’ordinamento e del senso di salvaguardia della cornice costituzionale. Il fatto che anche nella scorsa legislatura si siano fortemente collegate le vicende del tentativo di revisione costituzionale con quelle del Governo e con la ripetuta modifica della legislazione elettorale induce a propendere per la seconda ipotesi.
E allora viene da chiedersi se non sia forse venuto il momento di innalzare a livello costituzionale almeno gli elementi più sensibili del sistema elettorale. Sappiamo le ragioni che indussero a una diversa scelta all’epoca dell’Assemblea costituente e della scrittura della Costituzione, ma i rischi di irrigidimento che allora si vollero evitare vanno oggi soppesati con la continua instabilità e conflittualità che il perenne contrasto e l’incertezza sulle regole elettorali stanno determinando. Non a caso, anche il Codice di buona condotta in materia elettorale del Consiglio d’Europa, oltre a stigmatizzare la revisione della legislazione elettorale che avviene prima dello scrutinio (meno di un anno), ne vieta la revisione ripetuta e suggerisce meccanismi di stabilizzazione che impediscano di interpretare le modifiche come volontà di manipolazione legata a interessi congiunturali di questo o quel partito.