Mercoledì scorso la Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi di interesse, ma, come ricorda Domenico Lombardi, Professore di Politiche economiche e Governance dell’Eurozona alla Luiss, di cui dirige il Policy Observatory, «il comunicato della Banca centrale americana divulgato l’altro giorno è piuttosto chiaro nell’indicare che a settembre ci sarà il primo taglio, a meno che non intervengano dati contrastanti nelle prossime settimane.
oggi, però, il quadro macroeconomico mostra l’inflazione in discesa al 2,5%, quindi non molto distante dall’obiettivo di medio termine del 2%. In sostanza, nel secondo trimestre i segnali disinflativi sono stati più incoraggianti e in controtendenza rispetto al primo trimestre che aveva evidenziato una maggiore vischiosità. Allo stesso tempo, il mercato del lavoro va moderandosi con il tasso di disoccupazione salito al 4,1% a giugno, in aumento di mezzo punto rispetto allo stesso periodo del 2023 ma pur sempre ai minimi storici. L’attività si è espansa al 2,1% nel corso del primo semestre dell’anno in linea con il tasso di crescita di lungo periodo».
Vista la scansione temporale (il Consiglio direttivo della Bce si riunirà 12 settembre, il Fomc la settimana successiva), la Banca centrale europea anticiperà un eventuale taglio dei tassi della Fed oppure vorrà aspettare?
Direi che l’asincronia non costituisce un problema. Certo, occorrerà monitorare la dinamica delle variabili macro che la Fed e la Bce seguono con maggiore attenzione. Peraltro, come di consueto, la Fed ospiterà a fine mese il tradizionale appuntamento estivo a Jackson Hole nel Wyoming con gli altri banchieri centrali, tra i quali la Presidente della Bce. In quell’occasione, Powell – ma anche Lagarde – segnaleranno come le loro rispettive istituzioni intenderanno muoversi a settembre sulla scorta di una base dati più aggiornata. Aggiungerei, però, che vi è una fondamentale differenza tra le due banche centrali.
Quale?
Per la Fed, settembre segnerà presumibilmente la data di avvio del ciclo di riduzione dei tassi. In sostanza, l’aspettativa è che la Banca centrale americana tagli almeno di un quarto di punto in ciascuna riunione a settembre, novembre e dicembre. Il dibattito è se, in almeno una delle tre riunioni attese sino alla fine dell’anno, il taglio non possa essere addirittura di mezzo punto. Nell’Eurozona, il quadro è più complicato: l’attività economica rallenta rispetto alle previsioni che la Bce aveva formulato; l’inflazione da servizi si mantiene elevata intorno al 4% anche se, nel complesso, le forze disinflative continuano ad operare. Qualora, come nelle attese, ci fosse un taglio a settembre, questo sarà di un quarto di punto e probabilmente non sarà seguito a ruota da un’altra riduzione nella successiva riunione. In altre parole, la velocità di riduzione dei tassi della Bce sarà più lenta di quella della Fed.
Gli ultimi dati sull’inflazione dell’Eurozona rappresentano un “ostacolo” per un taglio dei tassi della Bce?
Come ha indicato Isabel Schnabel nei giorni scorsi, la Bce è preoccupata più dall’andamento della produttività che da quello puntuale dell’inflazione in sé. In sostanza, l’Eurotower guarda con preoccupazione alla possibilità che la bassa produttività e il recupero salariale in seguito alla perdita del potere di acquisto delle retribuzioni, elevando i costi per le imprese, possa indurle ad aumentare i prezzi. In tale ambito, delle riduzioni prudenti nei tassi di intervento possono comunque trovare spazio. Sarà importante valutare le prossime dichiarazioni di alcuni componenti “mediani” del Consiglio direttivo, i banchieri centrali di Francia e Paesi Bassi, per capire esattamente cosa accadrà a settembre. Sinora la Bce è stata piuttosto refrattaria a segnalare una diminuzione dei tassi per la prossima riunione. In un certo senso, è comprensibile. Avendo fatto un precommittment sul taglio a giugno, è stata indotta ad assecondare le aspettative che essa stessa aveva generato, nonostante i dati che erano appena usciti sulle retribuzioni e sull’inflazione non fossero pienamente in linea.
Restando in Europa, non si sta più parlando di Francia: problema risolto o c’è il rischio che riemerga magari in maniera più “esplosiva” durante l’estate?
Credo la Francia benefici di una tregua “olimpica”. La situazione politica appare ancora incerta e, per certi versi, irrisolta. In ogni caso, un Governo con una maggioranza eterogenea che è in disaccordo praticamente su tutto farà enorme fatica a riformare l’economia, stabilizzare il quadro fiscale e, soprattutto, le aspettative di mercato.
L’Italia si è ritrovata con un importante extragettito fiscale (quasi 25 miliardi di euro). Può, quindi, guardare con più tranquillità alla messa a punto del Piano strutturale di bilancio a medio termine e della Legge di bilancio?
Rispetto alla Francia, l’Italia vanta una stabilità politica che le conferisce un vantaggio straordinario in questa fase di incertezza globale e questo ritengo sia vero a prescindere se ci si riconosca o meno nell’attuale maggioranza. Indipendentemente dall’andamento favorevole dell’extragettito, rimane fondamentale ancorare il quadro di finanza pubblica a una postura iper-prudenziale, a maggior ragione visto che dalla Francia potranno soffiare venti di incertezza e instabilità nei prossimi mesi.
(Lorenzo Torrisi)
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