Ieri la Russia ha annunciato il taglio di 500mila barili della produzione di petrolio. La notizia ha immediatamente fatto salire le quotazione del greggio che hanno finito la giornata in rialzo. La decisione ha almeno tre livelli possibili di analisi.

Il primo livello è che il bilancio statale russo dopo dodici mesi dall’inizio delle ostilità e dopo un surplus commerciale record nel 2022, che aveva spedito il rublo ai massimi degli ultimi cinque anni, comincia a subire le conseguenze finanziarie delle spese di guerra e le difficoltà imposte dalle sanzioni. In un contesto economico internazionale in cui emerge qualche segnale di rallentamento il rischio era che le quotazioni del greggio, arrivate nelle scorse settimane ai minimi degli ultimi dodici mesi, si indebolissero ulteriormente. Togliere dal mercato 500 mila barili al giorno, un numero considerevole e pari a circa lo 0,5% della produzione globale, aiuta i prezzi e in ultima analisi i produttori. L’Opec finora è stata disciplinata e difficilmente in questo contesto andrà ad aumentare la produzione per rimpiazzare l’offerta russa. La produzione nordamericana ha smesso di crescere. Il petrolio russo rimane comunque a forte sconto e quindi i Paesi che hanno sostituito le importazioni russe continueranno a importare. Questa è la scommessa della Russia.



Il secondo livello è quello della ristrutturazione e frammentazione dei mercati energetici che segue quello dei mercati dei beni. Il secondo è più pubblicizzato e riguarda le politiche protezionistiche e il rimpatrio delle produzione con la Cina che smette di essere la fabbrica del mondo e punta sui consumi interni. L’Inflation reduction act di Biden che è, nei fatti, un attacco all’Europa che avviene mentre queste catene si ristrutturano e tutti si candidano a intercettare i nuovi flussi. L’india e altri Paesi del sud-est asiatico si rifiutano di adottare le sanzioni perché le forniture a basso costo russe sono un fattore chiave nello spostamento di parte della produzione cinese. Anche i mercati energetici si frammentano sotto il peso delle tensioni geopolitiche. La principale vittima è l’Europa perché ha perso il suo partner energetico storico, la Russia, e perché non sembra in grado né di difendere, né di costruire una relazione stabile con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.



Le rinnovabili sono costosissime e non sono compatibili con la sopravvivenza dell’industria europea a meno di ipotizzare uno sforzo colossale sul nucleare in tempi brevissimi. La decisione della Russia dimostra che è finito il mercato del compratore in cui le risorse naturali venivano acquistate sui mercati internazionali ed erano immediatamente disponibili per chiunque. I Paesi che hanno una relazione ancora aperta con Mosca non avranno problemi di fornitura, per gli altri l’effetto è “doppio”. Ricordiamo che qualche mese fa, nel pieno della crisi del gas, le principali fonti di informazione finanziarie speculavano su un possibile divieto di esportazione del gas da parte americana perché l’Amministrazione Biden cercava disperatamente di far scendere i prezzi interni.



Il terzo livello riguarda i mercati, le politiche industriali dei Governi e le politiche monetarie. Il rally delle prime settimane dell’anno è riconducibile al calo dell’inflazione e alle attese che questa riduzione possa continuare. La tesi è quella del “soft landing” (atterraggio morbido): l’inflazione scende senza che l’economia vada in una recessione grave. Basta quello che è stato fatto finora dalle banche centrali o poco di più in un contesto in cui l’economia non si ferma. Se i prezzi del petrolio invece salgono per fattori esogeni rispetto al quadro economico, come per esempio le tensioni geopolitiche, questa tesi salta. Ci troveremmo in una situazione di bassa crescita economica o persino di recessione e di alta inflazione. È la situazione peggiore sia per le banche centrali che per la “politica” sottoposta a tensioni sociali molto complicate. In questo contesto vince chi si assicura risorse energetiche a basso costo e riesce a difendere la propria industria. Chi non ci riesce si trova davanti a un iceberg senza molte possibilità di manovra.

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