La settimana scorsa è terminata con un confronto tra Governo-sindacati su come utilizzare le risorse destinate dalla Legge di bilancio alla riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti e con l’accenno a barlumi di una riforma tributaria che partirebbe da una revisione delle aliquote Irpef. Le due notizie vanno esaminate insieme per giungere a un giudizio sulla loro portata.
L’accordo sul “cuneo fiscale” è stato presentato in dettaglio su tutta la stampa quotidiana, ma vale la pena riassumerlo. In breve, 11,7 milioni di lavoratori dipendenti che già prendono il bonus degli 80 euro definiti ai tempi del Governo Renzi avranno 20 euro in più in busta paga ogni mensilità. Quelli che avranno il beneficio massimo (100 euro al mese) sono 750.000 dipendenti con redditi tra i 26.000 e i 28.000 euro l’anno. Subito dopo vengono 3.500.000 dipendenti con redditi tra i 28.000 e i 39.000 euro l’anno: le loro buste paga aumenteranno da 97 euro al mese sino a zero quando toccano 40.000 euro. Dall’operazione restano fuori “gli incapienti” (coloro con un reddito inferiore a 8.200 euro, stimati in circa 3,7 milioni); ai sindacati che hanno sollevato questo problema, è stato risposto che per quelli ai livelli più bassi ci sono strumenti come il “reddito di cittadinanza” e agli altri si darà priorità nella riforma dell’Irpef. Ciò mostra lo stretto nesso tra accordo sul “cuneo fiscale” e la più ampia riforma tributaria che l’Esecutivo avrebbe in mente.
Il timing dell’accordo è stato indubbiamente strategico alla luce delle imminenti elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria. Si tratta, comunque, di una misura che, nonostante la sua modesta portata quantitativa, dimostra chiaramente attenzione ai dipendenti dei ceti a reddito medio-basso e basso che avranno un leggero aumento di potere d’acquisto. È meglio non nutrire illusioni sui potenziali effetti macro-economici: l’impatto sulla domanda aggregata sarà quasi inesistente perché l’aumento di potere d’acquisto che non verrà utilizzato per beni di prima necessità verrà probabilmente accantonato a ragione della forte incertezza che in questa fase caratterizza il futuro anche a breve termine.
Il progetto di riforma dell’Irpef, secondo gli spifferi che provengono da palazzo Chigi e da via Venti Settembre, dovrebbe essere declinato entro metà anno e già per il 2020 (dichiarazione dei redditi del 2021) potrebbe determinare uno sgravio fiscale di 500 euro annui per i lavoratori dipendenti con reddito fino a 35.000 euro che nel 2021 arriverebbe 1.000 euro. Al momento per i redditi fino a 15.000 euro vige un’aliquota del 23% e per i redditi dai 15 ai 35 mila euro invece l’aliquota è del 27%. Il Governo vorrebbe accorpare le due aliquote in un solo scaglione al 20%. Ogni punto di riduzione della prima aliquota costa all’erario circa 4 miliardi. I benefici effettivi per i contribuenti sarebbero in realtà pochi, mentre i costi per le casse dello Stato ingenti. Inoltre, sul 2021 e 2022 pesano ancora le “clausole di salvaguardia” e i relativi aumenti Iva.
L’unico modo per ragionare su una progressiva riduzione delle tasse sarebbe quello di pensare di tagliare sgravi e deduzioni per i redditi più alti (già quest’anno chi supera i 120.000 euro annui non potrà più godere pienamente delle detrazioni del 19%), ma si tratta di misure politicamente molto impopolari.
La promessa di una riduzione, o anche solo di una rimodulazione delle aliquote Irpef, può diventare un’arma a doppio taglio che lascerà palazzo Chigi e via Venti Settembre con il cerino accesso e creerà milioni di disillusi scontenti. Occorre chiedersi se vale la pena tentarla o anche solo prometterla al di fuori di una riforma tributaria complessiva che tenga conto delle profonde trasformazioni dell’economia intervenute da quella del 1971 che è ancora la base del nostro sistema.
Da quando, nell’ormai lontano 1979, Antonio Pedone pubblicò, un eloquente saggio dall’accattivante, anche se amaro, titolo Evasori e Tartassati, la situazione non pare essere migliorata. Una Commissione presieduta da Enrico Giovannini stima l’evasione (per il 2016) in 109 miliardi di euro. Uno studio dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, guidato da Carlo Cottarelli, la pone invece, sempre per il 2016, non inferiore a 130 miliardi di euro se si tiene conto dell’evasione contributiva dei lavoratori autonomi e di altre tasse e imposte minori. Si tratta di stime de minimis, effettuate sulla base di quanto può essere ragionevolmente elaborato sulla base dei dati disponibili. Includono solo in parte l’elusione, ossia sfuggire dal fisco per vie perfettamente legali. A fronte di queste cifre, le misure proposte dal Governo stimano di poter recuperare tra i tre e i sette miliardi di euro nel 2020.
In effetti, come già ricordato su questa testata, siamo in un contesto ben diverso da quello del 1971. A ragione dell’integrazione economica internazionale, è in atto una vera e propria fiera delle tasse, titolo di un bel saggio del 1991 di Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti. Tremonti e Vitaletti si riferivano alla fiera delle tasse in atto da oltre cinquanta anni, a livello mondiale. Mentre gli Stati nazionali (o aree come l’Unione europea) si illudono di essere i depositari della potestà fiscale, com’è stato dalla pace di Westfalia nel 1648), negli ultimi decenni del secolo scorso l’integrazione economica internazionale ha drasticamente indebolito proprio questo loro aspetto e funzione. Tremonti e Vitaletti indicavano anche una strada: spostare l’imposizione dai soggetti (persone e imprese) alle cose. Ne articolavano la strategia. Anni dopo, questi principi diventarono l’asse di una riforma tributaria di vasto spessore, ma mai attuata.
La strada per una complessiva riforma è lunga ed è tutta in salita. Deve essere metabolizzata non solo dal Parlamento, ma anche e soprattutto dalle istituzioni e della società civile. Senza dimenticare che gli evasori, gli elusori e coloro che si avvantaggiano delle 550 tax expenditure in vigore sono anche elettori e sanno farsi sentire con i loro voti.