Entro fine mese il decreto legge attuativo della manovra per tagliare 3 miliardi, da luglio 2020, di cuneo fiscale, ritoccando all’insù gli 80 euro del bonus Renzi per chi già li percepisce (portandoli così a 100 euro) e consentendo a 4,3 milioni di lavoratori dipendenti, oggi esclusi dal beneficio, di ricevere, a scalare per i redditi più elevati intorno ai 40mila euro, gli 80 euro. Un’operazione che interesserà 16 milioni di dipendenti. Poi, una legge delega per riformare l’Irpef. E’ l’agenda che intende seguire il governo per rimettere ordine nella tassazione delle persone fisiche. L’obiettivo dichiarato: rendere il fisco più equo, riducendo il prelievo ai redditi bassi e al ceto medio. Riuscirà il governo nell’impresa? All’interno di un sistema fiscale complesso e da molti considerato iniquo, su quali cardini dovrà poggiare questa riforma? E soprattutto: si taglieranno davvero le tasse agli italiani? Ne abbiamo parlato con Salvatore Padula, ex vicedirettore del Sole 24 Ore ed esperto di materie fiscali.
Partiamo dal taglio del cuneo fiscale. Sul tappeto ci sono 3 miliardi nel 2020. Sono una dotazione sufficiente per dare ossigeno ai lavoratori dipendenti con redditi bassi?
Quando è stato introdotto il bonus Renzi, una sorta di taglio del cuneo anche se tecnicamente non lo era, e sul piatto furono messi 9,5 miliardi, già allora si diceva che era poco. Adesso si fa un’operazione che aggiunge altri 3,1 miliardi nel 2020, perché i vantaggi scatteranno da luglio, che nel 2021 saliranno a poco più di 6, visto che il beneficio sarà valido per tutti i 12 mesi.
Misura quindi non risolutiva?
Assolutamente, perché il prelievo resta decisamente pesante, ma come si dice a Milano: piuttosto che niente, meglio piuttosto. E’ chiaro che il taglio del cuneo, come peraltro lo stesso governo dice di voler fare, deve rappresentare un primo passo nella direzione di una rivisitazione più complessiva dell’imposizione sulle persone fisiche, il cui obiettivo finale deve essere la riduzione del prelievo. Con tutta una serie di questioni e problemi che si aprono. Non basta dire: riduciamo le tasse.
Il riordino dell’Irpef, alla luce anche della situazione della finanza pubblica italiana, resta una mission impossible?
E’ una mission impossible che deve diventare possible. Ma è un’operazione molto difficile.
Quali sono i nodi da sciogliere?
Il primo attiene a come è cambiata la nostra società. Una volta l’idea era che lo Stato trovasse nell’imposizione sui redditi delle persone e delle imprese la sua fonte primaria di alimentazione. Purtroppo il mondo è cambiato. Si può continuare a pensare a un sistema fiscale fortemente orientato alla tassazione dei redditi da lavoro?
La sua risposta?
Come ha scritto Franco Gallo, “il sistema fiscale è vicino al collasso, è invecchiato, non è in grado di intercettare la ricchezza ‘moderna’ – è il caso della tassazione degli intangibles – e si fonda troppo su tributi tradizionali, come appunto quelli sul reddito, e cioè su prelievi che, così come sono oggi congegnati, colpiscono in modo eccessivo e squilibrato le famiglie e le imprese”. Ma non c’è solo questo problema di impostazione teorica a complicare il quadro di una possibile riforma dell’Irpef.
Quali altri problemi vanno considerati?
C’è una difficoltà di ordine tecnico. L’Irpef è attualmente un’imposta che soffre di un’infinità di mali: le aliquote marginali che non si sa bene che direzione prendono; a volte viene proposta un’aliquota negativa; a volte invece, all’incremento del reddito, corrispondono balzi incredibili di aliquota, che rendono la nostra progressività poco lineare. L’Irpef è molto progressiva per i redditi più bassi, all’inizio della scala, e poco progressiva per i più abbienti.
Per riformare l’Irpef bisogna disboscare anche la giungla delle cosiddette tax expenditures.
E’ un groviglio di detrazioni, deduzioni, sconti in cui è difficile districarsi. Per spiegare queste agevolazioni l’Agenzia delle Entrate è costretta ogni anno a redigere centinaia di pagine di circolari e istruzioni alla dichiarazione dei redditi. In più, molti redditi non sono oggi passati dall’Irpef: basti pensare a quelli sugli affitti, soggetti spesso a cedolare secca, o a quel milione e mezzo di autonomi che pagano il regime forfettario. L’Irpef è ormai un’imposta che si è svuotata nei suoi cardini.
Possibili soluzioni?
Sono molteplici, ma più numerose sono, più è difficile riuscire a condensarle, soprattutto adesso che è al governo una compagine che non brilla certo per unità di intenti. E senza adeguate risorse finanziarie è impossibile mettere mano a una riforma dell’Irpef che possa aiutare a eliminare tante storture e che guardi anche al futuro del paese, offrendo nuove possibilità di lavoro e di crescita.
Dove si possono reperire?
E’ un enorme punto interrogativo, perché o arrivano da nuove tasse, e allora la riforma rischia di essere inutile, o da tagli alle spese, che però da 15 anni crescono visto che si fa fatica ad attuarli. Ma si possono aprire alcune opportunità.
In che modo?
In parte stanno proprio nel sistema dell’Irpef, costellato da almeno un centinaio di sconti, detrazioni, bonus e regalie varie. Qui si può provare a ragionare su una loro razionalizzazione, ma il governo dovrebbe avere la forza politica di spiegare ai cittadini che il riordino delle agevolazioni, a volte anche la loro eliminazione, anche se può non servire a ridurre la pressione fiscale, può invece servire per approdare a un sistema più equo e più efficiente.
Compito difficile…
E’ difficile perché toccare le agevolazioni scatena sempre la protesta delle varie lobby o delle categorie direttamente interessate. Ci sarà sempre chi ne esce svantaggiato, ma il tutto deve andare a favore di un sistema di tassazione generale più equo, che dà qualcosa in più a redditi bassi e ceto medio. E questo stesso lavoro potrebbe essere fatto anche razionalizzando le aliquote Iva.
La famosa rimodulazione su cui il governo ha ben presto fatto marcia indietro in sede di approvazione dell’ultima legge di Bilancio?
Come nel 2020, anche le clausole di salvaguardia previste per il 2021 vanno sterilizzate. Ma siamo così sicuri che non serva affatto un intervento mirato, che non sia il momento di superare la frammentazione delle aliquote, visto che siamo l’unico paese d’Europa ad averne ben quattro, dal 4% al 22%? Certo, ci vuole coraggio.
Perché manca questo coraggio?
In Italia, quando qualcosa è sbagliata e non funziona, si preferisce non toccarla piuttosto che correggerla, ma andando a scontentare qualcuno. Lo vediamo anche nel caso del catasto: tutti sappiamo che il sistema dei valori catastali è assurdo, superato e incoerente, ma rifiutiamo qualsiasi ipotesi di riforma perché qualcuno potrebbe subire un aumento del prelievo.
Si può intervenire anche su aliquote e scaglioni?
Bisogna farlo, partendo dalla considerazione della struttura attuale di aliquote e scaglioni, combinati con detrazioni, assegni famigliari e addizionali, che poi di fatto compongono quello che i tecnici chiamano l’andamento delle aliquote implicite, cioè diverse da quelle nominali e che determinano la struttura del prelievo. Una criticità in particolare va eliminata: l’aliquota al 37% sul terzo scaglione di reddito, quello da 28mila a 55mila euro, ben superiore a quella del 27% che si applica allo scaglione precedente, da 15mila a 28mila euro. Un balzo della progressività troppo rapido e che andrebbe attenuato. Non è comunque un problema di numero di aliquote o di scaglioni, visto che l’Irpef, quando è nata nel 1974, prevedeva 32 scaglioni e sopra i 500 milioni di lire allora si pagava un’aliquota del 72%.
E’ venuto forse il momento di considerare come soggetto d’imposta non più il singolo contribuente ma la famiglia?
I tempi sono maturi per riflettere su questo passaggio e ci sono già indicazioni in tal senso sulla necessità di un sistema che guardi più coerentemente alla famiglia come soggetto d’imposta. Lo stesso ministro Gualtieri, illustrando le linee guida della sua ipotesi di riforma dell’Irpef, lo ha citato come uno dei punti cardine, assieme a semplificazione e alleggerimento del prelievo. Di certo, il nostro sistema tende oggi a penalizzare le famiglie monoreddito rispetto a quelle bireddito, ed è una stortura che si può facilmente eliminare.
Un’ultima domanda: nel 2020 la pressione fiscale calerà come assicura il governo?
Così dicono le tabelle ufficiali allegate ai documenti di bilancio che sono stati inviati anche a Bruxelles. Ma è difficile rispondere, perché l’effetto di riduzione che si vede in quelle tabelle è in gran parte determinato non già da una vera riduzione della pressione fiscale, quanto dal mancato aumento dell’Iva per 23 miliardi. Ma quel mancato aumento è una riduzione o no? Al di là di quella posta, comunque, ci sono alcune voci di prelievo che nel 2020 cresceranno e questa sarà la percezione del singolo contribuente.
(Marco Biscella)