Ma diventeranno mai la classe dirigente del nostro Paese? Questa è la domanda di fondo che si sono posti tutti i relatori alla presentazione di Talents in Motion, la nuova piattaforma online che ha lo scopo di far ritornare i nostri giovani scappati all’estero. Nata da un idea di Patrizia Fontana, head-hunter di lunga esperienza, e con la collaborazione di una quarantina tra aziende e istituzioni lombarde, “Talents in Motion” ha l’obiettivo di provare a mettere in rete tutte le opportunità lavorative e fiscali che il sistema-Italia può offrire per attrarre i talenti, italiani e non. E ieri mattina, al Palazzo dei Giureconsulti, l’iniziativa ha avuto il suo battesimo, alla presenza di numerose personalità, dal governatore Fontana al presidente di Confindustria Bonomi.
La realtà – come sappiamo – ha un sapore molto più amaro. Sono decine di migliaia i ragazzi che, anche spinti dalle loro famiglie, sono volati lontano, prima per perfezionare l’inglese e i loro titoli di studio, e poi per trovarsi ottime posizioni lavorative nelle grandi capitali “globali”.
L’Italia registra da tempo i numeri peggiori: è ad esempio venticinquesima su 28 tra gli stati europei in competitività digitale e il gap tra possibilità occupazionali e profili professionali adeguati rivela un deficit decisamente negativo. Al Paese servono circa 15/18.000 laureati all’anno, ma le nostre università ne “producono” non più di 7.500/8.000. Meno del 50% di cui avremmo bisogno. È ovvio che poi chiudiamo gli ospedali per mancanza di medici.
Ma oggi ci sono due occasioni da non perdere. La prima si chiama Brexit e sta mettendo decine di migliaia di giovani di tutto il mondo di fronte al rischio di perdere il loro posto a Londra e dintorni. Di questi almeno 7.000 sono italiani. La seconda è un favorevolissimo regime fiscale riservato a chi ritorna in Italia e che consentirebbe di guadagnare – a parità di compenso lordo – molto di più.
Ma questi ragazzi, a cui con vezzo tutto italico associamo l’aggettivo di “talentuosi”, sarebbero davvero disposti a tornare in Italia? È il quesito a cui ha cercato di dare una risposta un’approfondita ricerca svolta dal Centro Studi di PwC e presentata da Andrea Toselli, capo in Italia della prima società di consulenza del mondo. Circa il 76% degli oltre 130 intervistati si dichiara in linea di massima disponibili a tornare in Italia, a fronte di una seria offerta di lavoro, pagata il giusto e soprattutto se la sede di lavoro è Milano. Ma la cosa che preoccupa di più è che dalla ricerca emerge che oltre l’84% non si è neanche posto il problema di cercare un lavoro in Italia.
Le considerazioni principali sono due. La prima è che stiamo – come spesso accade nel nostro Paese – cercando di chiudere le porte dopo che “i buoi sono già scappati”. I dati del sistema formativo italiano sono drammatici e la fuga all’estero è solo la punta dell’iceberg di una crisi profonda di tutto il nostro sistema formativo, che non solo non produce talenti e quei pochi che produce non riesce a trattenerli, ma soprattutto non forma i ragazzi “normali”, quelli che sono destinati a essere i cittadini e i lavoratori di domani.
La seconda considerazione nasce dalle stesse risposte degli intervistati. Al netto di domande molto dirette sulle motivazioni e le reali opportunità rappresentare dal nostro Paese, le risposte dei ragazzi sono improntate a un profondo individualismo. Manca un ragionamento d’insieme, essi non si sentono fino in fondo classe dirigente. Lo stesso Toselli – a un certo punto della sua presentazione – si è interrotto per esprimere con una certa preoccupazione la sua considerazione personale: “Sarà questa  – si domanda – la classe dirigente del Paese che prenderà il nostro posto tra qualche anno?”.
La domanda potrebbe essere così riformulata: “Sanno questi ragazzi che sono la classe dirigente di questo Paese? Sono pronti a questa responsabilità e ad assumerne la guida?”.  La risposta rimane sospesa perché nessuno li ha preparati a questo futuro, perché le loro famiglie hanno pensato bene di allontanarli dalla cultura della responsabilità, perché questi ragazzi hanno preso strade così diverse dai loro coetanei meno fortunati per cui non condividono con loro desideri, passioni, difficoltà. Non basta essere bravi e competenti (talenti, come amiamo dire oggi) per diventare classe dirigente. Bisogna saper ragionare in maniera collettiva, aspirare al potere e non disdegnare la ricerca del consenso, amare l’economia ma saper leggere la società e le sue contraddizioni. In una parola, sapersi occupare degli altri.



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