In un periodo particolarmente fortunato per l’horror, in cui i costi medio-bassi e l’interesse del pubblico giovane garantiscono una continuità che altri generi non hanno, anche il genere cosiddetto “elevato”, ovvero quelle forme di film dell’orrore che hanno una personalità estetica, stilistica o di contenuto più adulta e autoriale, ha le sue belle opportunità. Il fenomeno dell’horror dell’ultima stagione si pone a metà tra la visione personale e le tendenze mainstream, viene dall’Australia (e infatti producono i realizzatori di Babadook), ha fatto scalpore al Sundance e si chiama Talk to Me.



L’opera prima dei fratelli Danny e Michael Filippou, che con il nome di RackaRacka gestivano un noto canale YouTube specializzato in brevi video horror e comici in cui si notava il loro talento per gli effetti speciali, racconta di Mia (Sophie Wilde), adolescente che sta cercando di superare il lutto per la morte della madre frequentando la famiglia dell’amica Jade (Alexandra Jensen). Durante delle sedute spiritiche organizzate dai loro amici, le ragazze si divertono a farsi possedere dagli spiriti tramite una mano imbalsamata dotata di poteri medianici, ma è chiaro che le cose non andranno per il verso giusto e il confine che separa ciò che resta da ciò che torna nell’aldilà è fin troppo sottile.



Scritto da Danny Philippou e Bill Hinzman da un’idea di Daley Pearson, Talk to Me unisce temi, personaggi, intreccio da teen-horror a una regia adulta e rarefatta, cercando di portare il pubblico dei ragazzini a una visione più consapevole, a immagini orrifiche che escano dai meccanismi consueti.

Stando ai risultati di critica e anche di incassi (90 milioni nel mondo, per un film non americano che ne è costati meno di 5: Babadook ne incassò 10), l’operazione è riuscita da un punto di vista produttivo, il lavoro fatto da A24 nella distribuzione è stato egregio e il film ha parecchi punti di interesse anche a prescindere dal tipo di operazione: i fratelli registi dimostrano ottima consapevolezza del mezzo e competenza tecnica, lavorano bene sulla messinscena e sulle atmosfere, hanno dialoghi validi capace di delineare i personaggi, soprattutto non puntano allo spavento fine a se stesso, ma creano un’inquietudine, lavorano sulla differenza tra spavento e paura e questo non si può non apprezzare.



Il limite principale del film sta nel dover a forza infilare i sottotesti che lo rendano “attuale”, soprattutto sta nel fatto che questi sottotesti puzzino un po’ di moralismo retrivo, dalle sedute spiritiche raccontate come trip di droghe allucinogene al rapporto che i ragazzi hanno con i social networ, per arrivare infine all’ennesimo film di famiglie perdute, di rimpianti filiali e delusioni genitoriali. In questo modo, tutta la costruzione visiva e cinematografica della tensione sembra solo una patina messa per nobilitare assunti banali, senza che su di essi si sia lavorato con vera profondità, lasciando che il dramma – e i suoi forti limiti – prendesse la mano al gioco della paura, quello che in cui Talk to Me avrebbe dovuto giocare le sue carte vincenti.

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