Con una lucidità negli anni sempre più sorprendente, Susanna Tamaro dalle colonne del Corriere della Sera guarda l’evolversi del mondo, le sue dinamiche più profonde, i suoi segnali più potenti. Si è concentrata diverse volte, in quest’ultimo periodo, sui giovani: ne ha descritto il vuoto esistenziale, di senso, l’incapacità di darsi un orizzonte in cui tutto possa assumere valore e direzione. Li ha definiti ragazzi “senza memoria” e “senza storia”, implicitamente evidenziando come dietro la descrizione di una generazione si celino i drammi di quelle precedenti. La Tamaro invita dunque gli adulti a riprendere il loro ruolo normativo, ponendo confini, regole, sacrifici ai più piccoli, forse ignara che a quei “grandi” cui si appella è accaduto qualcosa di irreversibile che non permette loro di esercitare il ruolo educativo che la scrittrice auspica.
Tutto parte da chi ha vissuto la guerra e la fame nei primi anni durante la ricostruzione: sono costoro quelli che hanno fatto in modo che i figli non soffrissero, che la vita gli risultasse più facile e meno accidentata. Hanno certamente trasmesso a chi è venuto dopo il senso dell’impegno e del sacrificio, ma non quello della “conquista”, della necessità di rientrare in possesso della ricchezza che ci viene trasmessa. Il ’68 ha illuso tutti che per vivere bastasse pertanto una ferma volontà e una completa libertà: in questo contesto si è esaurita la capacità di stare di fronte alla sproporzione che è insita nella realtà tra ciò che c’è e ciò che si desidera.
È sorta una stirpe di occidentali sempre più spiazzata dinanzi alla sofferenza, refrattaria a rimanere a contatto col mistero dell’assenza, di ciò che non c’è, che non c’è più, che non c’è ancora, che non si è capaci di afferrare. Negli ultimi anni questa paralisi di fronte al dolore ha prodotto una ricerca sempre più morbosa del piacere e della soddisfazione, inibendo l’attitudine fondamentale dell’uomo a progredire che emerge nell’ora del fallimento e della sconfitta.
Sono apparsi sulla scena genitori che non riescono più a sopportare i propri errori, che non ce la fanno a riconoscere di essere – per vocazione – una delle cause dell’infelicità dei propri figli. Già, perché è questo che un genitore è chiamato a generare nel figlio: quell’insoddisfazione e quel senso del “finito” che spinge il ragazzo a mettersi in cammino per trovare una propria strada, un proprio percorso.
I nostri figli sono vittime di genitori che non sanno più sbagliare, che non riescono più ad accettare di portare la sofferenza e il dolore nella vita di chi amano, sono vittime di genitori che non ce la fanno a vederli piangere. Fin da piccoli noi cerchiamo che i nostri figli smettano di piangere: non li lasciamo gustare il sapore delle lacrime, la percezione di avere bisogno di altro. Diamo loro pupazzetti, cartoni animati, soldini, telefoni, vestiti. Purché non piangano. Insegniamo loro a dire “cattivo” allo spigolo in cui inciampano, al tavolo, al seggiolino, all’amichetto, alla maestra, all’allenatore, al prof. Non sopportando il nostro dolore, li allontaniamo dal loro dolore. Non essendo più capaci di reggere il nostro pianto, evitiamo il loro pianto.
E così, quando arriva l’adolescenza ed essi scoprono quanto la natura può essere traditrice e matrigna, li consegniamo ad un vuoto che nessun nostro giocattolo o abbraccio può a quel punto colmare. Nel mare della solitudine è solo una compagnia che può ridonare speranza. Un’amicizia finalmente umana in cui ritrovare tutte le dimensioni di sé, e riaprire l’esistenza ad una promessa che strappi dal vuoto e che possa stupire – anche Susanna Tamaro – con Qualcosa di veramente nuovo.