Uno starnuto, il naso che cola, qualche colpo di tosse. Consulti freneticamente il termometro, 37.2. Provi a chiamare il tuo medico di base. Segreteria telefonica, 8 persone in attesa. Quando arrivi a meno due, la linea cade. Ritenti. Tre, cinque, dieci, venti volte, nessuno risponde. Poi qualcuno risponde, “un attimo” e ti rimette in attesa, e si richiude la comunicazione. Prostrato, mandi una mail allo studio medico. Poi due, poi tre. Nulla. Allora ti metti due mascherine e te ne vai a piedi, immaginando una fila in attesa.



E’ più lunga di quanto temessi, tutti appiccicati, perché gli studi medici sono ubicati in alloggi, in condomini, e non sono previsti percorsi particolari per i pazienti sospetti. Ti ammassi con gli altri sventurati, poi ti innervosisci, tutti si innervosiscono, qualche anziano spinge, “solo una domanda”, cerca di passare avanti. Temi la bagarre, e quando sta per scatenarsi, esce un medico bardato e sudante e urla di star buoni, che non ce la fanno più, e chi non è contento se ne vada altrove.



Quando arranchi alla porta, ti dicono di tornare a casa, tachipirina e aspettare. I dubbi intanto crescono, solo star lì in fila ha aumentato la percezione del rischio, e allora chiedi se puoi fare un tampone. No, naturalmente, non  puoi. Solo per i probabili contagi. Qualcuno accanto a te dichiara di essere stato a contato con un positivo, tutti lo scansano. Torni a casa, depresso, spaventato, e cominci a cecare un laboratorio, una clinica privata che effettui tamponi a pagamento. La Regione Lazio ne ha accreditati tanti, dovresti farcela. Scorri l’elenco, e ti attacchi al telefono: nessuno risponde, quando rispondono ti dicono che sì, sarebbero accreditati, ma i kit per processare i tamponi non sono ancora arrivati, la regione tarda; oppure sono arrivati e sono già finiti; oppure puoi farlo, ma tra due settimane, addirittura un mese. Nel frattempo dovresti avvisare al lavoro: se non vai, senza tampone certificato dal tuo medico di base, non ti pagano la malattia. Se vai, metti a rischio i colleghi. “Farò come tutti”, sussurra il tuo senso civico. E così ti metti in coda un’altra volta negli ormai leggendari drive-in covid. E pensi quando alla parola drive-in pensavi all’hamburger.



Due, tre, cinque, otto ore. E’ realtà, non fantasia. Chiedi a chi ti precede di tenerti il posto, vai a cercare un bagno, maledicendo di non esserti dotato di pannolone. I maschi hanno una bottiglia a portata di mano. Non bevi, per non aumentare lo stimolo. Pensi all’Inferno, qualche girone sarà una  fila al drive in covid. Intanto hai già imprecato contro regione, Comune, Municipio, Sanità, ti sale la pressione, e la depressione. Quando ti infilano il tampone nel naso, torni a casa, esausto, sai che se va bene passeranno tre, quattro giorni senza avere risposta. E intanto al lavoro, che fai? Se sei responsabile stai a casa, prendendo ferie o permessi. Se  non  lo sei più, vai al lavoro, e  speri. Poi l’esito arriva, è negativo, e tu respiri. Pensando che nei giorni intercorsi probabilmente ti sei contagiato davvero, magari in coda al drive -in. Ecco, questa è Roma. Questa la prevenzione, il tracciamento. Ci stiamo dimenticando perfino dei cassonetti stracolmi di immondizia puzzolente, delle strade dissestate, dell’erba alta dei giardinetti in cui pascolano i cinghiali. Roma Capitale, emblema di un paese in rovina.

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