L’introduzione della tassa sugli extra profitti delle banche, comunicata lunedì sera, ha causato a Piazza Affari ribassi sul comparto bancario italiano. Prima di questa doccia gelata, il settore bancario italiano si era invece distinto per performance eccezionali: le prime tre banche italiane per attivi segnavano rialzi compresi tra il 41% e il 130% rispetto a dodici mesi fa. La Borsa di Milano era stata trainato dalle banche che da settembre dell’anno scorso non avevano mai smesso di salire nonostante la preoccupazione sul ciclo economico, la crisi energetica scoppiata proprio la scorsa estate, l’inflazione e l’erosione dei salari reali. Per trovare una corrispondenza storica tra gli utili attesi per il 2023 bisogna tornare al 2007, l’anno prima del fallimento di Lehman, che a sua volta aveva offuscato al rialzo ogni performance precedente. Gli utili del 2023 delle banche italiane sono un evento che negli ultimi 40 anni è capitato una volta a generazione.
Il mistero di questi risultati sta nell’aumento dei tassi deciso dalla Banca centrale europea per contrastare l’inflazione. I rialzi hanno coinvolto gli attivi delle banche molto oltre la parte di mutui a tasso variabile. I crediti, alle imprese e alle famiglie, concessi a partire dalla scorsa primavera, incassano tassi di interesse molto più alti di quelli vecchi o scaduti. Il tasso invece pagato sui depositi è rimasto invariato e sostanzialmente pari allo 0%.
L’annuncio di lunedì è stato un fulmine a ciel sereno solo in parte. La presidente della Bce, Christine Lagarde, a inizio giugno dichiarava nel corso di un’audizione al Parlamento europeo che la Bce desiderava che le banche trasmettessero la politica monetaria anche ai depositi e che non “vedeva abbastanza in relazione ai depositi”. Il Governatore della Banca d’Italia Visco, nelle stesse settimane, notava che “gli effetti dei rialzi dei tassi ufficiali sui rendimenti dei depositi a vista sono ancora molto contenuti” e metteva questo fenomeno in relazione all’abbondante liquidità accumulata dagli intermediari negli ultimi anni che ha comportato una minore pressione commerciale.
La differenza tra rendimento dei titoli di stato e rendimento sui depositi lasciati sui conti si è ampliata, ma lo “stock” di risparmi è rimasto, in gran parte, parcheggiato sui conti. Per una lunga fase, chiusa sul finire del 2021 con l’inizio dei rialzi dei prezzi, il “costo opportunità” di lasciare i risparmi in banca è stato basso; l’inflazione era sotto il 2% e in almeno tre occasioni, il fallimento di Lehman, la crisi dei debiti sovrani e i primi mesi di lockdown, i depositi avevano protetto dalla volatilità dei mercati finanziari. Gli italiani si sono abituati a parcheggiare i soldi sui depositi senza controindicazioni. Il risultato è quello che si è visto sui conti delle banche italiane e sulle loro azioni quotate che è avvenuto in un contesto che, seppur di ripresa, non coincide con un “boom” economico e che, anzi, ha scavato solchi nel potere d’acquisto delle famiglie.
Dall’altra parte della barricata, oltre alle imprese, non ci sono solo i sottoscrittori di mutui a tasso variabile, ma anche le famiglie che devono ottenere un nuovo mutuo; a parità di prezzi delle case e di leva finanziaria le rate sono molto più onerose. In assenza di adeguamenti salariali le famiglie si trovano strette tra costi, alimentari e non solo, più alti e rate del mutuo molto più salate di quelle che si sarebbero pagate 18 mesi fa. L’acquisto della casa è così diventato molto più complicato. La fine della deflazione e l’inizio di una nuova fase si porta dietro tassi più alti e margini di interesse strutturalmente più ricchi che devono coprire, ovviamente, le perdite su crediti che per ora però rimangono ai minimi.
La stagione delle tasse sugli extraprofitti è stata riaperta recentemente dal Governo Draghi dopo la crisi energetica seguita all’invasione dell’Ucraina. Allora i proventi erano stati destinati ad aiutare le famiglie e le imprese ad affrontare l’esplosione delle bollette. Oggi è il turno delle banche e dei loro profitti extra.
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