Il Governo italiano lunedì ha annunciato l’incremento della tassa sugli extraprofitti delle società energetiche dal 10% al 25%. Il gettito derivante da questa tassa concorrerà a finanziare gli aiuti alle famiglie che affrontano rincari delle bollette e, più in generale, un incremento del costo della vita che non si vedeva da decenni.
L’incremento delle tasse sui profitti delle società energetiche è politicamente invitante: da una parte ci sono aiuti, pronta cassa, che finiscono nelle tasche delle famiglie, dall’altra ci sono società che aumentano gli utili senza “fare niente” e facendo leva sulle bollette degli italiani. Ci sono alcune criticità sotto questa superficie apparentemente incontestabile.
La prima è che le “società energetiche” subiscono il secondo incremento delle tasse in meno di due mesi. La domanda inevitabile è cosa escluda che ce ne sia un altro o altri nei prossimi sei mesi. Queste sono domande fondamentali nei processi con cui si decide se iniziare o meno un investimento. Le società energetiche si confrontano già con Governi che decidono di spegnere o accendere quella o questa fonte tradizionale sulla base di presupposti politici e che oggi subiscono incrementi dei prezzi dei componenti e in alcuni casi difficoltà nel loro reperimento. L’incertezza regolamentare è forse il principale ostacolo, persino più di una tassazione elevata, agli investimenti privati. Che le decisioni siano “politiche” dovrebbe essere evidente in un contesto in cui le principali economie globali, come gli Stati Uniti, incentivano la coltivazione di mais per fare carburanti verdi mentre un giorno sì e l’altro pure si discute di un’imminente crisi alimentare globale. Nei fatti l’economia “green” dell’Occidente mette a repentaglio la sicurezza alimentare dei Paesi in via di sviluppo. Tutto sotto l’insegna degli investimenti “socialmente responsabili”.
La seconda criticità è che si sposta il centro decisionale dalle società e dagli imprenditori per trasferirlo verso il Governo centrale. Il quale incassa i dividendi politici di questo trasferimento sia per una mera questione di potere che fluisce dal basso verso l’alto, sia per la maggiore capacità di spesa che non è estranea alla costruzione e al mantenimento del consenso. Mentre questo processo si rafforza le nuove estrazioni di idrocarburi nei mari italiani sono ferme al palo o vietate. L’intervento del Governo attua una redistribuzione che non cambia la quantità di energia prodotta. Le rinnovabili nell’orizzonte temporale di breve medio periodo, quello che assicura la sopravvivenza del sistema industriale, possono influire minimamente, se non in misura impercettibile, sull’equazione. Nei fatti si redistribuiscono forse più “equamente” risorse energetiche che sono insufficienti per garantire la sopravvivenza del tessuto produttivo e la qualità della vita delle famiglie italiane. Gli aiuti o un deficit più alto non creano né gas, né benzina, né elettricità.
Siamo abituati a pensare a queste misure dando per scontato, com’è successo finora, che ci siano risorse abbondanti e a basso prezzo per tutti, ma questo non è lo scenario che si prospetta. I prezzi di mercato delle risorse energetiche in uno scenario di offerta strutturalmente più bassa della domanda sono destinati a salire se non si risolve la questione della produzione. Gli aiuti o la compressione dei prezzi a queste condizioni portano inevitabilmente a uno scenario da “tessera annonaria” magari marchiata con un’accattivante dicitura “green”.
La politica di redistribuzione in uno scenario di strutturale deficit dell’offerta impedisce che le risorse vengano accaparrate “naturalmente” dal ceto medio o medio alto sulla base del maggiore potere d’acquisto, i ricchi comunque risolvono autonomamente, ma in compenso consegna al Governo un potere “di vita o di morte” deciso su basi “politiche”. Le società private sono incentivate a rimanere tra gli spettatori per non farsi mettere il mirino addosso. I paragoni con alcune esperienze politiche fallimentari si sprecano.
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