L’incasso derivante dalla tassa sugli extraprofitti delle imprese energetiche sarà con ogni probabilità molto inferiore a quanto aveva preventivato il Governo Draghi. Il ministero dell’Economia ha rivisto le stime portando l’incasso a poco più di un miliardo rispetto ai dieci previsti. La revisione è arrivata dopo la scadenza dei termini per il pagamento dell’acconto che cadeva il 30 giugno. Il Sole 24 Ore ipotizza una diserzione di massa con le imprese convinte di poterla spuntare nel contenzioso che inevitabilmente verrà aperto. La norma del Governo Draghi infatti ha optato per un criterio di calcolo dell’imposta, costruita sui differenziali Iva, che dà origine a storture evidenti. Una delle più clamorose, per esempio, è quella subita dalle imprese che avevano deciso di coprirsi con derivati per proteggersi da fluttuazioni del prezzo del gas.
Succede normalmente che le imprese produttrici decidano di vendere la propria produzione, per esempio di gas, a un prezzo bloccato che può distaccarsi molto da quello di mercato. È un modo in cui un’impresa si tutela da possibili ribassi o da eccessiva volatilità ottenendo in questo modo di poter programmare i propri investimenti e anche di offrire tariffe bloccate ai propri clienti. Supponiamo, per esempio, che un’azienda decida di vendere la produzione di gas del prossimo inverno a un prezzo inferiore a quello che esprime il mercato oggi in modo da avere visibilità sui propri flussi e tutelarsi da possibili ribassi. Se il prezzo esplode, come successo l’inverno scorso, l’azienda formalmente incasserà, anche dal punto di vista dell’Iva, il prezzo di mercato anche se in realtà dovrà restituire una buona parte alle banche o ad altre istituzioni finanziarie che si erano prese il rischio di garantire il prezzo bloccato.
Con la norma voluta dal Governo, le aziende si trovano a pagare tasse su un extraprofitto che non c’è e che, da un certo punto di vista, hanno fatto bene a sacrificare sull’altare della stabilità aziendale e dei clienti.
Bisogna fare una premessa. Le aziende energetiche non sono contro l’extratassa. Non per un moto di generosità, ma perché in questa situazione nessuno vuole farsi mettere addosso il mirino della politica e dell'”Agenzia delle entrate” su un tema così politicamente sensibile. Le aziende produttrici stanno facendo talmente tanti profitti che sarebbero ben felici di rinunciare a un pezzo pur di avere certezza regolamentare e fiscale. A nessuna persona di buon senso viene in mente di girare con un orologio di lusso in bella vista in un quartiere poco raccomandabile.
La diserzione si spiega solo ipotizzando che le imprese abbiano percepito una minaccia esistenziale. È il caso di una tassa talmente arbitraria che instilla due sospetti: che sia saltata qualsiasi regola, in favore di un limbo normativo, e che non ci sia limite all’appetito “fiscale” della controparte pubblica. In questo caso l’attività d’impresa diventa impossibile perché è impensabile qualsiasi piano a medio termine soprattutto se ci sono di mezzo investimenti.
La tassa sugli extraprofitti italiana non è un unicum europeo. In Inghilterra c’è un corrispettivo simile, solo che è deducibile in caso di investimenti in idrocarburi “nazionali”. Una differenza che testimonia un approccio costruttivo e non distruttivo della controparte pubblica.
L’energia è un tema fondamentale se non “il” tema fondamentale per un sistema produttivo. Gli imprenditori devono essere coinvolti non puniti o messi nelle condizioni di non potere investire. L’alternativa altrimenti è la statalizzazione che è una sfida complicata soprattutto per la rapidità con cui è arrivata la crisi energetica. La diserzione dal pagamento della tassa sugli extraprofitti è un segnale preoccupante che indica la sfiducia degli imprenditori rispetto all’approccio del Governo. Niente a che vedere con i proclami che si sono sentiti.
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