Lungi da me difendere le banche. O farmi influenzare nel giudizio rispetto all’ultimo capolavoro elettoral-propagandista del Governo dalla reazione di Piazza Affari: la Borsa ormai è manipolazione allo stato puro, quindi totalmente inutile per decodificare la realtà. Ma altrettanto necessario è evitare vampate da menopausa di Schadenfreude populista nel festeggiarla quella mossa, tanto puerile quanto utile al timoniere di turno solo per sviare l’attenzione dai veri problemi. Perché il dito della tassa sull’extra-profitto bancario serve proprio a nascondere la Luna del cono d’ombra, dell’imbuto in cui il Paese è andato a rinchiudersi.
Partiamo da un dato di fatto, inoppugnabile. La tassazione del 40% non era in programma nell’ultimo Consiglio dei ministri. Ad annunciarla nel corso della conferenza stampa, il ministro Matteo Salvini. Il quale ha sottolineato due dati: primo, quei 2-3 miliardi serviranno a contrastare il caro-mutui e abbassare le tasse. Già qui, conti alla mano, roba da lago di Tiberiade. Secondo, il leader leghista intesta la mossa al suo ministro, Giancarlo Giorgetti. Il quale, chiuso al Mef come in un bunker, tace. La ragione? Non abbiamo in questo momento in cantiere una tassa sugli extraprofitti delle banche, non è all’ordine del giorno. Parole e musica del medesimo Giancarlo Giorgetti, non più tardi del 5 giugno scorso all’Italy Capital Markets Forum organizzato da Bloomberg a Milano. E per l’ennesima volta, ecco che sorge il domandone: cosa è cambiato in questi due mesi? Perché al netto del controvalore, i numeri parlano.
Mettiamo pure che l’introito dalla mossa del Governo sia di 3 miliardi, il massimo finora calcolato. Perché farlo ora? Proprio ora che l’Ue ha dato via libera ai 35 miliardi della terza e quarta tranche del Pnrr entro fine anno. E che il Governo può contare su un tesoretto non smentito di circa 10 miliardi di fondi per la ricostruzione post-alluvione che non sono stati erogati. Cosa cambia a livello contabile? Davvero pensano di garantire un minimo di recupero del potere d’acquisto e di ristoro fiscale per una decina di milioni di italiani con 3 miliardi di euro di extra-gettito?
I banchieri non hanno gradito, ovviamente. Non fosse altro perché fino a oggi si sono comportati da perfetti Primary Dealers del debito pubblico nelle sue innumerevoli indicizzazioni all’inflazione. La stessa che le banche hanno cominciato a contrastare con un bel credit crunch verso famiglie e imprese ben prima che la politica se ne accorgesse. O almeno ammettesse responsabilmente l’esistenza del problema. Sono soggetti privati, le banche. E fanno il loro interesse. Ciò che non va bene è il ricatto tacito che nasce e si sostanzia bi-direzionalmente dal legame incestuoso del doom loop sulla detenzione di Btp, appunto. Ma andate a spiegarlo alla politica, stante il abbiamo messo una toppa ai danni creati dalla Bce con cui il liberale Antonio Tajani ha difeso il provvedimento. La stessa Bce che ha acquisto il 61% del nostro debito emesso nell’ultimo anno. E lo stesso Antonio Tajani che da Presidente del Parlamento Ur difesa a spada tratta quel doom loop, stante la sua campagna contro il limite alle detenzioni bancarie di debito sovrano. Brutta cosa la memoria. Io non difendo le banche. Anzi. Ma tollero ancora meno l’ipocrisia. Se elevata a stile di governo, poi, è quasi un obbligo morale chiedere conto.
Parliamoci chiaro. Giancarlo Giorgetti è vissuto come uomo di Draghi, quindi può e deve essere sacrificato. Se non lo avete capito, si è aperta ufficialmente la campagna elettorale. Il prossimo 6-9 giugno in Italia sarà election day per politiche ed europee. Trade (and hedge) accordingly, cari lettori. Perché l’attuale livello del bond a 100 anni della rigorosa Austria parla chiarissimo su cosa ci attende, non fosse altro a livello di inflazione.
Non vi basta? Vi racconto dell’altro, tanto per delineare meglio il quadro. Era il 26 giugno scorso. Il Financial Times pubblicava le risultanze di un report dell’Ente federale di auditing tedesco, in base al quale la Bundesbank avrebbe dovuto ricapitalizzarsi per tamponare le perdite legate al programma di acquisto obbligazionario Bce. Chiaramente, via budget. Ovvero, il contribuente tedesco avrebbe pagato per il Qe salva-Pigs. Così, infatti, sarebbe stato letto l’accaduto da gran parte dell’opinione pubblica. Detto fatto, la Bundesbank smentì. L’Ente federale, invece, si trincerò dietro un no comment.
Come stanno le cose? E perché è così importante, nonostante la questione fosse passata sotto silenzio? Perché nel suo comunicato di smentita, la Buba lasciò aperta più di una finestra di dubbio. Certo, disse che al momento il bilancio non richiedeva ricapitalizzazioni. Ma ammetteva che il rialzo dei tassi non avrebbe potuto escluderle in un futuro che andasse oltre il 2023. Ma, soprattutto, parlava di riserve in valuta come possibile mezzo di intervento, se necessario. Quali valute? Basta dare un’occhiata alla tabella: oro. Fisico. Quello che proprio la Bundesbank ha rimpatriato in fretta e furia dall’estero a partire dal 2018 e con almeno un lustro di anticipo.
L’acronimo magico è GRA e i lettori romani non si facciano abbindolare: non è il Grande Raccordo Anulare. Bensì Gold Revaluation Account. Ovvero, una parte del net equity del bilancio di una Banca centrale che registra gli incrementi non realizzati delle detenzioni auree. Ma, soprattutto, uno strumento alternativo per assorbire le perdite sullo stato patrimoniale. A oggi, il GRA della Bundesbank equivale a 176 miliardi di euro. Di fatto, il contribuente tedesco e il Tesoro possono stare tranquilli. Ma ecco che quella smentita così secca nel titolo, ma così aperturista nei contenuti da parte della Buba rispetto all’articolo del FT, mostra un mondo parallelo. Che vive e si sviluppa ai confini del Qe perenne. Di fatto, la Buba non necessita di ricapitalizzazione non perché i cicli espansivi della Bce non comportino perdite, ma perché può swappare riserve auree. In un mondo di monete del Monopoli stampabili a piacimento e senza accountability, l’oro torna a essere standard. Nascosto e silente. Ma sempre più esiziale. Non a caso, nonostante le vendite obbligate della Banca centrale turca, nei primi sei mesi di quest’anno gli acquisti di oro delle Banche centrali globali hanno sfondato il record assoluto: qualcosa come 387 tonnellate, stando a dati del World Gold Council. Mai così tanto nel primo semestre di un anno da quando si tracciano le serie storiche. Cioè dal 2000.
Se le Banche centrali cominciano a utilizzare oro come asset per assorbire le perdite, questo cosa ci dice del futuro di un sistema che monetizza debito e finanzia direttamente deficit? E se a operare sull’oro sono le due Banche centrali più falco in assoluto, quella tedesca e quella olandese, davvero possiamo pensare che le liabilities italiane su Target2 non abbiano le ore contate? Sempre partendo dal presupposto che le nostre notevoli riserve auree siano ancora riconducibili come proprietà e controllo a Bankitalia.
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