Il report negativo di Moody’s sulla tassa straordinaria sugli extra-profitti bancari decisa dal Governo italiano è arrivato dall’esterno a puntellare – a supplire e spronare – un fronte critico nazionale finora debole ai limiti della latitanza. Dall’intero arco politico parlamentare l’unica voce contraria si è levata – un po’ a sorpresa – dall’interno della maggioranza: dal vicepremier Antonio Tajani (Forza Italia). Ma quello che colpisce di più – a tre giorni ormai dal Consiglio dei ministri – è l’assenza di reazioni aperte e ferme da parte del mondo bancario. Perfino dal comitato di presidenza dell’Abi, riunitosi ieri, non è filtrato più di un segnale informale di “sorpresa”. A Piazza Affari, intanto, il contraccolpo a caldo sulle quotazioni dei segmento bancario è stato già rapidamente smaltito.



Resta silente la Banca d’Italia, primo presidio di vigilanza sul settore: al cui vertice c’è già – come Governatore designato – Fabio Panetta, tuttora in carica come membro del Comitato esecutivo Bce, dopo aver fatto parte a Francoforte del Consiglio di supervisione bancaria. In un’intervista ha parlato dal canto suo Ignazio Angeloni, a lungo tecnocrate italiano di alto rango in Bce: senza tuttavia rilevare problemi particolari in un prelievo “una tantum”. Tace il Consiglio di vigilanza Bce; oggi presieduto dall’italiano Andrea Enria; e non si esprime l’Eba – l’authority di vigilanza bancaria dell’Ue. Come potrebbero del resto contestare un appesantimento fiscale sugli utili netti le stesse autorità monetarie che hanno imposto a tutte le banche dell’eurozona di non distribuire alcun dividendo agli azionisti durante l’emergenza-Covid?



Nessun segnale giunge neppure dalla Commissione Ue: ma come potrebbe l’eurocrazia eccepire a un Governo (politico) italiano che – per una volta – decide un’imposizione straordinaria per sostenere sussidi a famiglie e imprese generandoli dal proprio fisco? Come potrebbe la Commissione von der Leyen, a dieci mesi dal voto per l’europarlamento, proteggere da Bruxelles le banche italiane dal Governo Meloni mentre in tutt’Europa è emergenza per il fortissimo caro-tassi sulle rate dei mutui e polemica sulla remunerazione-zero su conti e depositi?

Mentre Francesco Giavazzi (consigliere del premier Mario Draghi ed editorialista-principe del Corriere della Sera) ha tenuto alcuni dubbi tecnici nel basso profilo di un paio di virgolettati, l’unica uscita visibile è stata quella del Presidente dell’Acri, Francesco Profumo: il leader associativo delle Fondazioni, maggiori azionisti nazionali di Intesa Sanpaolo, UniCredit, BancoBpm, Bper. il Presidente della Compagnia San Paolo non ha però voluto denunciare in sé la “mini-patrimoniale” sulle banche, quanto l’effetto collaterale di riduzione dei dividendi attesi dagli Enti e quindi della loro capacità erogativa nel welfare sussidiario sui territori.



Il suo malumore non è apparso troppo diverso da quello che è stato sicuramente registrato del gigante Blackrock: il maggior investitore istituzionale in Intesa Sanpaolo. È il disappunto scontato verso la novità da Roma da parte dei grandi fondi globali, cui ha fatto da cassa di risonanza la mini-campagna condotta dal Financial Times. L’house organ della City si è mostrato comprensibilmente  preoccupato che la mossa di palazzo Chigi sulle grandi banche possa essere imitato da altre Cancellerie europee. Ed è su questo ferro caldo che Moody’s sembra essere intervenuta con molta evidenza a ribattere. Nei termini inevitabilmente ambigui propri delle agenzie di rating: sempre premute – in conflitto d’interesse strutturale – fra la loro proprietà (zeppa di mega-fondi) e l’orientamento stretto al profitto speculativo dei mercati loro clienti; e la dichiarata indipendenza tecnica delle valutazioni sulla solidità finanziaria delle diverse società.

Per Moody’s, comunque, la “windwfall tax” sulle banche italiane è “credit negative” per l’intero settore nazionale perché “riduce in maniera sensibile i profitti netti”, tagliando di circa il 15% quelli dichiarati per il 2022. E questo – secondo l’agenzia – va ad aggravare “una serie di limitazioni alla redditività del sistema, come già la limitata attività creditizia e l’aumento dei costi operativi”.  È un quadro argomentativo che appare opaco e discutibile in più punti.

Anzitutto: il “profitto al netto delle tasse” non sono il primo indicatore significativo della salute economica o della solidità finanziaria di un’azienda, cioè dei profili d’interesse di un’agenzia di rating. Lo è di più il reddito prima delle tasse; ma lo sono in prima battuta i margini gestionali (per una banca margine d’interesse e margine d’intermediazione complessivo). Lo è, in un bilancio bancario, il peso sul reddito operativo delle perdite accusate sui crediti e sul portafoglio titoli e degli accantonamenti prudenziali sui rischi: sono queste cifre – assieme ad altre – le basi di ogni calcolo e confronto analitico.

L’utile al netto del carico fiscale ha certamente una rilevanza per il rating quando costituisce la “torta” da spartire a fine esercizio: sotto forma di dividendo da distribuire agli azionisti ovvero sotto forma di accumulo a rafforzamento del patrimonio. E qui arriviamo al punto: la tassa straordinaria va certamente a ridurre l’utile netto disponibile delle banche, ma questo di per sé non peggiora – a monte – la performance gestionale registrata dalla banca; e non è detto vada a ridurre – a valle – l’effetto di rafforzamento patrimoniale e quindi la solidità finanziaria. Quest’ultimo impatto ci sarà solo se gli amministratori della banca – e i soci in assemblea – decideranno di mantenere comunque in termini assoluti il monte-dividendi preannunciato al mercato. È invece evidente che il semplice mantenimento del cosiddetto “pay-out” (quota percentuale dell’utile destinato a dividendo) comporterà una riduzione del dividendo assoluto: ma questo, in sé, non dovrebbe preoccupare un’agenzia di rating, semmai solo gli investitori di mercato, che si troverebbero di fronte a titoli meno redditizi di quanto preannunciato.

Moody’s prova a convincere i mercati che la tassa italiana indebolisce le banche, mentre va essenzialmente a ridurre (per un anno) le cedole agli investitori. Ma lanciare questi warning non è compito degli analisti di rating, ma di quelli di Borsa che consigliano gli investimenti con la bussola stretta della remunerazione speculativa a breve termine

È per questo che gli strilli di Moody’s sulle banche italiane risuonano in modo anomalo e sordo: rimbalzando senza eco sulle authority di vigilanza che hanno la stessa preoccupazione sul versante istituzionale. E sarà pur vero che nel 2023 il credito sta rallentando per il contraccolpo recessivo del rialzo anti-inflazionistico dei tassi condotto dalle banche centrali. Ma è vero anzitutto – lo dicono i consuntivi stessi già pubblicati dalle banche – che su quella manovra politico-finanziaria le banche nel 2022 hanno realizzato profitti record: non diversamente, anzitutto, dal settore energetico. Con buona pace di Moody’s,  che ha fallito clamorosamente il crac di Lehman Brothers nel 2008 e pochi mesi fa si è accorta all’ultimo di quelli in arrivo per Svb e Credit Suisse. Mentre tace – assieme a S&P’s – sul downgrading del rating sovrano Usa dichiarato da Fitch: le più piccola e impertinente delle Big Three di Wall Street.

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