Nel 2018 i contribuenti Irpef titolari di partita Iva sono stati 3,6 milioni. Larga parte dei professionisti non forfetari, 494 mila, hanno versato una Irpef media di 18.630 euro (circa tre volte quella dei lavoratori dipendenti). Gli imprenditori individuali (non forfetari) hanno versato una Irpef netta media di 6.990 euro (simile ma più alta di quella versata dai lavoratori dipendenti), mentre i collaboratori, soci e associati delle imprese familiari, delle società di persone e delle associazioni professionali hanno versato una Irpef media di 9.040 euro (doppia di quella dei lavoratori dipendenti).



I dati dei versamenti confermano, dunque, che l’Irpef non viene pagata solo dai lavoratori dipendenti e dai pensionati e confermano, altresì, che nei Paesi sviluppati si registra un progressivo inaridirsi dei redditi da lavoro come base per la tassazione. Negli anni ’80 del secolo scorso la quota dei redditi da lavoro era la voce più determinante, mentre oggi il reddito da lavoro dipendente, anche in Italia, è scesa al di sotto del 50%.



In questi giorni, sul tema della riforma fiscale, è arrivata la riflessione del Direttore dell’Agenzia delle Entrate Ruffini che, nel sottolineare di essere una ex partita Iva, ritiene sia giunto il momento di riformare il modo in cui si pagano le imposte. La sostanza della proposta non è definita e al momento è stato annunciato che si sta lavorando alla liquidazione mensile delle imposte in modo da evitare lo stress annuale a cui sono sottoposti i lavoratori autonomi.

Se il cantiere della riforma fiscale si ferma a questo aspetto è opportuno che il dibattito prosegua. L’ex Ministro Visco, in un recente intervento, ha ribadito che il nostro Paese si caratterizza per la presenza di un’evasione di massa e ha evidenziato che pertanto le misure di contrasto devono riguardare tutti i contribuenti.



La sua analisi proseguiva commentando i provvedimenti adottati negli ultimi anni che vanno dallo split payment al reverse charge fino a giungere alla fatturazione elettronica e ha sottolineato come ancora non lo convincano i risultati di quest’ultima. Da più parti si stanno palesando seri dubbi sulla reale efficacia degli strumenti posti in campo contro l’evasione. Il discorso andrebbe allargato all’intero panorama del fisco telematico e alla miriade di adempimenti periodici introdotti che per le imprese si traduce in un appesantimento dei costi per burocrazia. I provvedimenti introdotti, infatti, colpiscono, solo una parte dei contribuenti, in particolare quella di fatto già “fedele” al fisco.

Da qualche anno si quantifica sempre in circa 100 miliardi annui l’evasione fiscale. Si tratta di un numero determinato su base statistica che apre un interrogativo. Se il dato è vero, allora si può concludere che quanto è stato messo in campo non migliora il gettito per l’erario ma crea appesantimento delle gestioni aziendali introducendo adempimenti del tutto inutili, inefficaci e spesso sovrapposti. Se invece il dato è sovrastimato, come sembra, si alimenta un conflitto tra contribuenti e cittadini senza ricavare benefici per nessuno. Continuando così si accentua il distanziamento sociale in luogo di quello sanitario. Bene, dunque, la lotta all’evasione, ma deve essere accompagnata da una efficientamento della spesa.

Tornado alla riflessione del Direttore Ruffini, forse prima di decidere vanno esplorate anche altre ipotesi. Oggi la liquidazione delle imposte passa per la compilazione di modelli dichiarativi non semplici anche per i contribuenti minimi e forfettari. Introdurne, dunque, degli altri non appare una soluzione. È di questi giorni l’emissione da parte dell’Inps di Durc “irregolari” perché non si è tenuto conto della sospensione dei versamenti fissati nel periodo di lockdown. Questa esperienza consiglia di percorrere una strada diversa che valorizzi l’esperienza fatta, ad esempio, nel settore delle ristrutturazioni. L’applicazione al momento del pagamento di una ritenuta minima sul fatturato, attraverso un intermediario finanziario, consentirebbe di anticipare il pagamento di una parte delle imposte rendendo meno doloroso il versamento del saldo in sede di dichiarazione. In questo modo non si introdurrebbero nuove dichiarazioni e il sistema inizierebbe ad avere meno strozzature.

La riforma non deve limitarsi a un restyling del modo di pagare le tasse. Vanno introdotti principi di equità senza i quali si rischia di perdere di vista il ruolo chiave delle Pmi nella crescita economica del Paese, con ampi margini da perseguire nel Sud dell’Italia.

Gli interventi da porre in campo devono puntare a convogliare le risorse verso le filiere e i distretti e verso quelle aziende capaci di trasferire i benefici ricevuti all’indotto cui sono collegate. Al centro del dibattito va posto il tema della tassazione delle imprese evidenziando come essa sia fortemente condizionata dalla sleale concorrenza fiscale internazionale che ha fatto scendere le aliquote dell’imposta sulle società in tutto il mondo ma non in Italia.

È condivisibile, invece, la riflessione sulla tassazione di quanto viene incassato. Non è ancora chiaro se si pensa a un’ipotesi come quella che abbiamo suggerito in un precedente intervento, mentre è evidente come il nuovo sistema rappresenterebbe un segnale di attenzione rivolto al mondo delle partite Iva che si sente trascurato.